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9 Marzo 2022

Mark Lanegan Il Bluesman Che Aspettava La Fine Del Mondo


Mark Lanegan è andato via nell’ora più buia, proprio nel momento in cui la coscienza genera mostri terribili e ci lascia soli a fare i conti con noi stessi. Ci sono destini comuni che portano alle estreme conseguenze il proprio ruolo nel mondo, perché qualcuno deve pur cantare il sangue, il dolore e la pioggia nelle esistenze di ciascuno, con una poesia che viene dalla fine del mondo. Da una parte c’è il calcolo, la supremazia della materia, dall’altro l’abisso dello spirito con i suoi anfratti oscuri in cui risuonano voci perdute. Lanegan cantava questo, il versante della vita pulsante, non le strade dritte ma i percorsi tortuosi come quei rami che seguono le linee di un corpo invisibile cercando un sostegno per sopravvivere. Il peso della voce di Lanegan era l’elemento che faceva la differenza nella sua musica come territorio di appropriazione totale. Uno degli esempi più lampanti è dato dal brano Circle The Fringe con Greg Dulli: quando al minuto 3.20 entra Lanegan si spezzano tutti gli equilibri, si satura lo spazio e viene impressa una direzione del tutto diversa al mood complessivo, ciò solo perché quella voce faceva la differenza su tutto. Lanegan era uno specchio per tutte le anime spezzate, uno specchio la cui superficie non faceva altro che ricomporne i pezzi e restituire un’immagine integra di se stessi ad ogni ascolto. Dagli anni del grunge Mark aveva tratto il senso della propria identità, si era perfettamente collocato in una scena che raccoglieva gli umori di una generazione che puntava all’essenza del rock quanto della vita fino ai suoi confini più lontani. Gli Screaming Trees sono figli del loro tempo la cui parabola ascendente prende spunto prima che la scena di Seattle imponesse la propria attitudine sul grande pubblico. Gli anni 1988-1992 sono cruciali per la band, proprio in ragione di album come “Buzz Factory”, “Uncle Anesthesia” e “Sweet Oblivion”. Fuori dagli Screaming Trees Lanegan parte per un viaggio che lo ha condotto nelle profondità del proprio mistero doloroso, quello in cui si è consumata tutta la propria vita. C’è l’apocalisse in ogni fibra della sua arte, nel folk gotico e ipnotico di “Fields Songs”, così come nelle nebbie oscure di “Bubblegum” o nei codici melmosi di “Blues Funeral”, forse una delle sintesi più compiute di una personalità così complessa. Perché ogni album era una genesi, il passaggio faticoso verso una meta transitoria funzionale a rifiatare e rimettersi in cammino. Come il protagonista del romanzo di Nic Pizzolatto “Galveston”, immaginiamo Mark spalancare le finestre per respirare l’odore della pioggia, sedersi sul letto e aspettare senza paura che arrivi la tempesta che spazzerà via ogni cosa. Addio, bluesman della fine del mondo.

Giuseppe Rapisarda

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