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26 Gennaio 2014 ,

Nazarin LA MATTANZA DEI DIAVOLI

2013 - Viceversa Records

 Nazarin LA MATTANZA DEI DIAVOLIA dispetto di nome e artwork che sembrano suggerire uno stile aggressivo, grezzo e dark, i quaranta minuti di questo “La Mattanza Dei Diavoli” sono attraversati da una quiete diffusa, una rassegnazione amara che diminuisce il vigore complessivo del lavoro. Tuttavia Salvo Ladduca, celatosi dietro il nome Nazarin, citazione cinematografica, compensa con una composizione lucida ed efficace, che riesce a evitare un eccessivo svilimento e appiattimento della pasta sonora. La densità tenebrosa, plasmata dalle chitarre unite alle ritmiche brillanti, riempie la base, mentre le liriche riescono a sprofondare per poi risalire con ritornelli dolcissimi. I testi evidenziano una scrittura superiore alla media, che racconta con un linguaggio crudo, diretto ma non facilone, oscuro ma non inaccessibile, dell’immigrazione, del nichilismo, di un presente buio. Ballate dai ritmi pacati, dalla forte sensibilità, ma che non sanno rinunciare a momenti di energia come il finale di Sugli Aghi, esempio paradigmatico delle progressioni elettro-acustiche presenti nel disco.

 

Le coordinate sono quelle delle ballate folk, delicate, sfumate, temperate, spesso influenzato dalle cadenze blues e dalle sue chitarre, miti e sobrie. Così si va dalla morbidezza di Veglia Sui Nostri Figli, traccia d’apertura, con un ritornello più che mai sognante, alla seguente Radice Mangia Radice, più sanguigna, aspra e insistente. Brani delicati, finissimi, ma non privi di carica. Evidenti sono anche le venature pop di alcune basi (Un Intero Giorno) e gli impulsi cantautorali (Per Quello Che Ho Fatto), maturi e sinceri come pochi in circolazione, che richiamano, non solo per la provenienza isolana, il folk di Cesare Basile. Nelle rare dissonanze presenti nei brani riecheggia la psichedelia più essenziale, anch’essa dolcissima, come nel caso di Partinico, unica canzone senza voce ma dal ritmo che incalza sotto una coltre polverosa, o della title-track, amara e rabbiosa, che, a causa degli accordi così vicini al country, rimanda ai Woven Hand meno spinti. Un disco, dunque, composto da più anime, dove ogni traccia rispecchia i vari umori dell’autore, dalla più profonda (Una Preghiera Semplice) alla più dura (Sugli Aghi), fino alla più dimessa (Tre Lune). Il tutto a testimoniare che il progetto è molto interessante, innegabilmente onesto.

Simone Pilotti

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