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26 Marzo 2015 ,

Le Capre a Sonagli IL FAUNO

2015 - Autoproduzione

Le Capre a sonagli IL FAUNO

Un nome come Le capre a sonagli è già di per sé destinato a colpire e a restare impresso. E non è la cosa più strana della band. La cosa più strana è il loro sound. C’è dentro di tutto: le chitarre western di Hank Marvin and the Shadows e le ninne-nanne ubriache di Vinicio Capossela, voci lisergiche e allucinate, tra Robert Wyatt e Marty Balin, un po’ di folk e un po’ di punk, e tanta patchanka, intesa proprio come mistura di gusti, di mondi e di influenze, proprio come quella cara ai Manonegra. “Il fauno” è concepito come una specie di favola, forse un’opera rock o forse un concept-album, dove tutti i brani sono collegati tra loro, a volte persino da una voce narrante, quella del Fauno, appunto, però la cosa bella è che una trama non c’è. Anzi, i testi spesso sono ridotti all’osso, sono reiterazioni di una sola frase, o al massimo di tre o quattro strofe che si alternano tra loro, quando addirittura non sono soltanto versi gutturali, come in Ciabalé. Anche i “messaggi” lasciati qua e là dal “fauno narrante” (come riportato nelle pochissime note dell’album) sono a dir poco criptici. La band raggiunge una sua vera e propria vetta di nonsense nel brano Demonietto all’organetto, nel quale il testo è costituito dalla sola esclamazione: “Ah ah, che rock’n’roll”, mentre ciò che si sente sotto è in realtà lontanissimo dal tradizionale concetto di rock. 

 

Sembra piuttosto una sorta di melodia popolare affidata all’organetto del titolo, appunto, e a un flauto dolce suonato volontariamente in modo sgangheratissimo. Per la verità, a un certo punto del brano, il rock’n’roll arriva, con le chitarre country e desertiche che ricorrono in questo lavoro, ma è solo un breve inciso. Strumentalmente parlando, il momento più riuscito è Giù, una cavalcata psichedelica oscura e tribale, dai toni quasi doom, con un po’ di folk e un pizzico di prog del più dark e apocalittico. Ma per quanto riguarda il testo, anche questo brano è una sorta di calembour tra non più di sei parole abilmente mischiate tra loro. Alla fine si tratta di un album talmente strano che risulta persino difficile dire se sia geniale, delirante o solo una monumentale presa in giro. Sicuramente è affascinante, va assimilato, con coraggio e con curiosità, e ripagherà questa curiosità entrando pian piano dentro l’ascoltatore. E altrettanto sicuramente è suonato molto bene, curato in ogni dettaglio e realizzato magistralmente… ma le scarne note di copertina non ci fanno sapere da chi. E neanche sul sito ufficiale, criptico quanto la band stessa, abbiamo trovato riferimenti più specifici o informazioni più dettagliate. Ma noi ci incaponiamo e troviamo i loro nomi sulla pagina facebook: loro, quindi, sono Stefano Gipponi (voce, chitarra) Matteo Lodetti (basso, armonica) Enrico Brugali (batteria, percussioni, elettronica) e Giuseppe Falco (chitarra, banjo, elettronica), anche se per la verità gli strumenti che si sentono in questo album sono molti di più.

 

Alberto Sgarlato

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