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18 Marzo 2015 ,

Winona FULMINE

2015 - Seahorse Recordings

Copertina-FulmineIl trio dei Winona, costituito da Michele Morselli (voce e chitarra), Marco Simonazzi (basso) e Francesco Prandi (batteria), ci offre questo “Fulmine”, album dalla copertina essenziale, giocata su chiaroscuri e giochi di luci, e dalla grafica ancora più scarna ed essenziale. Chitarre ora sature, ora taglienti, ora pulite e arpeggiate, costituiscono l’intero tessuto armonico/melodico di questa band, che deve tanto allo shoegaze, a My Bloody Valentine, ma qualcosa anche ai Pixies e ai Sonic Youth, ai primissimi Dinosaur Jr. e, perché no?, anche qualche strizzatina d’occhio ai Nirvana ogni tanto fa capolino. Un album che è un monumento agli anni ’90 e a tutto quello che si è realizzato in quel decennio, in verità il meno appetibile e il più grigio in mezzo secolo di storia del rock del Novecento, dopo l’irruenza ribelle e rivoluzionaria dei ’60, la maestosità dei ’70 e la raffinatezza degli ’80. Eppure, evidentemente, anche quell'epoca infelice è entrata nel cuore di qualcuno e continua a lasciare le sue tracce nella produzione musicale di oggi. Del resto il nome stesso della band farebbe pensare a un omaggio a Winona Ryder, vera e propria icona cinematografica degli anni ’90, decennio in cui ha realizzato i suoi film più significativi.

 

Tornando ai Winona, strumentalmente le loro canzoni sono piacevoli, coinvolgenti, ben costruite attorno ad un massiccio ed elaborato muro di chitarre. I limiti sono tutti, principalmente, vocali: nell’interpretazione, rabbiosa, carica, eccessiva, ma troppo “urlata” e del tutto priva di grazia, ma anche nei testi che vorrebbero contenere una denuncia sociale, una critica del nostro tempo, della sua crisi economica, politica, sociale e, invece, spesso risultano ingenui, banali e afflitti da un certo qualunquismo inutilmente provocatorio che manca irrimediabilmente l’obiettivo. Inoltre le liriche a tratti risultano anche inserite forzatamente negli accenti della musica. Questo, però, è un limite frequente della lingua italiana. Un sound che ambisce a essere così “internazionale” e che si rifà a tutto un universo di alternative rock di chiaro stampo anglo-americano, dovrebbe avere certamente l’inglese come lingua d’eccellenza per essere pienamente compiuto. Concludendo: un album con pregi e difetti, globalmente valido seppur riuscito soltanto in parte.

Alberto Sgarlato
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