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9 Dicembre 2012

Drifting Mines DRIFTING MINES

2012 - Autoproduzione

drifting minesBrani come I Wanna Ride You, Body’n’Soul, Peppermint Club in questo debutto sulla lunga distanza dei Drifting Mines si  articolano intorno a dettami  rock’n’roll e rockabilly abbastanza canonici, anche se caratterizzati spesso da sviluppi compositivi e stacchi ritmici non proprio ortodossi per quei generi lì. Nessuna traccia quindi di influenze Velvet Underground, Crime, X, Gun Club fino a Buddy Holly, J.L.Lewis, Stones di cui certa stampa aveva parlato. Lungi da noi avere toni da Savonarola del rock, però troviamo che da un po’ di tempo (da sempre?) da parte di etichette, distributrici ed uffici stampa italiani ci sia una leggerezza davvero scandalosa - nel tentativo di promuovere gli artisti dei loro roster - nello strumentalizzare i grandi nomi del rock di sempre, passati ed attuali,  per fissare influenze, assonanze musicali ed ispirative con i pargoli protetti. Magari non è il caso dei Drifting Mines, Adalberto Correale, Andrea di Giampietro (keyboards) e Carlo Moscatelli (drums) che si autoproducono, ma anche a loro direi di andarci molto piano ‘usando’ - per definire il proprio lavoro - nomi che hanno lasciato un’impronta davvero indelebile nel rock del ventesimo secolo, e che stanno a cuore di tutto coloro che amano il rock, punk, garage più autentici.

 

Dopodichè non abbiamo difficoltà ad ammettere che negli episodi suddetti, come in Barrelhouse rock, Alone in the blues, Chicken walk  (unica cover presente, del grande e misconosciuto Hasil Adkins)  Correale e c.  appaiono intenti ad una ricerca di nuove soluzioni all’interno di generi che ormai hanno parecchi decenni sul groppone: a nostro parere l’operazione è appena all’inizio, soprattutto nei brani più pimpanti, perché è riuscita a fasi alterne, non si capisce bene in più di un caso dove l’assetto complessivo dei brani, un mix di  rockabilly ed elementi garage e punk, voglia andare a parare. Ad esempio esiste nel corpo di molti brani un uso quasi seriale di marziali e bruschi stacchi ritmici  che ci paiono molto poco efficaci. Riconosciamo però alla band di avere un’identità molto più ben messa a fuoco - rispetto alla raccolta di debutto, risalente a periodi diversi – e tarata su un rock’n’roll sporco e grezzo. Le cose migliori si ascoltano dove la band si lascia andare di più, Snake Blues (decisamente l’episodio più riuscito e denso, con un uso malato e visionario  delle chitarre di Adalberto), Under a spell  ed una ghost track strumentale obliqua  dove i keyboards di Andrea appaiono bene inseriti. Do it again Hell Rey!

 

Pasquale Wally Boffoli

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