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25 Novembre 2014 , ,

Carnenera CARNENERA

2014 - Sinusite Records

Carnenera CARNENERA  Si doveva aspettare il 2014 con questo sorprendente lavoro omonimo dei Carnenera per scoprire che il postmoderno non è definibile come “fine delle grandi narrazioni” ma è essa stessa una narrazione complessiva dei frammenti; un disco composto da 9 splendidi frammenti poderosi e tisici. E ogni frammento è una espettorazione di secrezioni sonore acide, taglienti e, in alcuni casi, inaudite: frammenti di frammenti. Carnenera produce materiale sonoro da toccare e ascoltare in un solo, unico gesto. Carnenera è una fabbrica, non un laboratorio, come oggi disgraziatamente si usa dire; Carnenera è invece una fabbrica in senso proprio e il primo brano del disco, Tilikum, mima la sirena ferrosa che segna l’inizio del processo di lavorazione. È l’inferno del lavoro psichico e manuale quello che sentiamo nel successivo William Blake: il basso distorto di Pissavini è un tornio per l’anima che si aggira tra le nebbie e il fumo nero di drone sovrapposti; era dai tempi di “Verbannten Kinder Evas” che non riuscivamo a impantanarci in tale pece acustica. È a questo punto che Carnenera nel fango-Sludge della sua propria fucina creativa incontra Dalila Kayròs e ne sortisce il piccolo capolavoro La marcia dei triceratopi; realmente mai voce più opportuna, kairotica in senso proprio. 

 

La fusione di ambient e doom riporta alla mente da una parta l’indimenticabile  Ann-Mari Edvardsen di “In This Room”; dall’altra più segretamente qualche sperimentazione vocale di Giuni Russo. Le percussioni di Garof sono pura matematica, eleganti equazioni del suono che raggiungono l’equilibrio tra tecnica e nostalgia nel successivo Duello. È qui che l’anima più avant-jazz della band prende il sopravvento e tutto si fa sghembo (notevole l’assolo di Pissavini), prezioso ed elastico. Duello si posiziona dalle parti di ZU e di Ulvercarne dei quali, senza meno, prova a rileggere il suono ma ancor di più, ci sembra, in quella ricerca sonora che negli ultimi anni ha coinvolto molta della sperimentazione italica; un nome per tutti: i romani Neo. Tuttavia Carnenera non si limita a inserirsi in un solco, ne traccia al contrario uno ben preciso fatto di picchiate sonore, aperture, contrazioni e espansioni: un respiro. Con il successivo Twenty One Thousand Leagues la chitarra di Sempio ci lascia inspirare lande sonore e panorami infiniti almeno fino al rallentamento bradicardico di William Wallace che qualsiasi fan di lungo corso potrebbe scambiare per un ispirato inedito dei My Dying Bride con i suoi riff bagnati di disperazione.

 

Le successive Nine and then some e Tre gatti tengono alto lo standard qualitativo anche se si posizionano sul terreno più sicuro del post-rock; ci sembra notevole, soprattutto in Tre gatti l’influenza di formazioni degli anni ’00 quali Ulan Bator e Katatonia. Ma prima di lasciarci e chiudere la sua officina Carnenera trova il tempo di dimostrare che è possibile fare Avant (rock, jazz, metal) senza stordirci di noia, senza pensare che l’unico genio della lampada musicale si chiama Zorn e soprattutto che in Italia un’altra produzione musicale è possibile. La dimostrazione in questione prende il nome di Self-harm ed è un grande concentrato di distruzione creatrice a base di chitarre scordate, piatti in controtempo e accenti fuori tempo. Siamo dunque usciti dall’opificio musicale Carnenera, ma non a mani vuote; portiamo con noi una valida esperienza musicale, forse (in prospettiva) un nuovo panorama artistico e un gran bell’oggetto (il lavoro grafico di A. Torri è notevole). Che J. F. Lyotard, ovunque esso sia in questo momento, prenda appunti: la fine del postmoderno è una grande narrazione pulp.

Luca Gori

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