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8 Aprile 2013 ,

Enzo Jannacci

2013

LO STRALUNATICO

 

Che dire di un folle musicista che in un mondo mieloso e canzonettaro di amori vissuti e abbandonati, di tristezze nostalgiche e speranze di fidanzamenti a lungo termine, se ne esce nel 1962 con la pazzia surreale de Il cane con i capelli? Basterebbe questo brano fuori da ogni schema conosciuto all’epoca per inquadrare il personaggio Enzo Jannacci. Un genio folle e sregolato dalla voce sgraziata e a volte strozzata nelle interpretazioniiannaccipiù ravolgenti, autore di canzoni (“trattasi solo di canzonette” diceva molti anni prima di Bennato) lunari e surreali a volte “difficili” ma che supportate da musicheorecchiabili e accattivanti lo portarono comunque a un buon successo anche nei confronti del pubblico meno smaliziato. Ma Enzo Jannacci non era solo questo: cantante sì, musicista senz’altro, ma anche cabarettista, attore cinematografico, cardiologo di fama, cantore dialettale della milanesità più popolare, karateka, sollevatore di pesi (vedi la copertina di "Discogreve") pattinatore provetto, (esilarante lo sketch televisivo in cui goffamente finge di non saper pattinare).

 

E se nel cinema ci piace ricordarlo stralunato, tragico e ossessivo personaggio che deve utopisticamente e assolutamente parlare col papa pur senza mai dire il motivo che lo spinge a quell’incontro nello splendido “L’udienza” di Marco Ferreri (1971) suo primo film da vero protagonista e nell’ultimissimo “La bellezza del somaro” di Sergio Castellitto (2010) dove è il misurato settantenne Armando (guarda caso nome e titolo di una delle sue canzoni più famose) innamorato riamato di una diciassettenne, nel teatro segnaliamo l’album “Enzo Jannacci in teatro” che oltre ad avere il primato di essere il primo disco live italiano in assoluto, siamo nel 1964, contiene quella perla incommensurabile di Prete Liprando e il giudizio di Dio brano cantato/recitato di enorme spessore storico e culturale. E nella sua copiosa attività live mi piace ricordare con un po’ di nostalgia un paio di concerti ai quali assistetti: il primo, dove, giubilo per me rockettaro, era accompagnato dalla PFM quasi al completo e nel quale si produsse in una strepitosa e spassosissima jannacciimitazione di Battiato, oltre a una El purtava i scarp de tennis versione reggae lunga quasi un quarto d’ora. Ed un altro, dove quando cominciò a cantare, sul palco vi erano solo i musicisti e mentre ci si chiedeva da dove provenisse quella voce fantasma mi accorsi che lui era proprio in piedi accanto alla mia poltrona nel corridoio del teatro e mi trovai il suo faccione a pochi centimetri dal mio mentre mi faceva un occhiolino, come a voler dire: ti ho fregato!

 

 

Poi c’è quella splendida avventura discografica disseminata di pietre preziose inenarrabili, dove pur negli alti e bassi di un successo altalenante, almeno per il grande pubblico, il livello è di una qualità talmente elevata che si fa fatica a realizzare una discografia consigliata; e se posso dividere quella trentina di album in tre fasi distinte direi che la prima quella che va dal 1964 al 1977 è imperdibile almeno per il primo album dialettale “La Milano di Enzo Jannacci” (1964), per “Vengo anch’io… no tu no” (1968) che oltre contenere il famosissimo brano omonimo vale il prezzo del disco anche solo per la struggente e antimilitarista La sera che partì mio padre. E in questa prima fase sono ancora da ricordare pur facendo torto ad altri album: “La mia gente”  (1970) che contiene se non altro Il dritto, la stralunata Mexico e nuvole e la commoventissima Gli zingari censurata in RAI per il suo contenuto politicamente sociale, a significare che oltre all’umorismo satirico e “fuori di testa” una vena straziante complementava l’animo di Jannacci.

 

jannacciE ancora l’album del 1975 “Quelli che..” con il super classico ancora struggente Vincenzina e la fabbrica, mentre è nel 1979 che si apre quella che io chiamo la seconda fase con l’album “Fotoricordo” con il successivo e splendido “Ci vuole orecchio” (1980), con il bellissimo “E allora… concerto” (1981) e con il già citato “Discogreve” del 1983, per finire con l’ottimo album “L’importante” (1985). La terza e ultima fase vede un Jannacci un po’ più in ombra non tanto per la qualità dei suoi prodotti sempre piuttosto elevata, ma forse per l’inizio della crisi del mercato discografico e un allontanamento del grande pubblico verso suoni e parole meno impegnate. “Parlare con i limoni”, del 1987 è ancora ricco di belle e intelligenti canzoni, tra tutte il brano omonimo e la satirica Poveri cantautori; seguono i discreti “Guarda la fotografia” (1991)  “I soliti accordi” (1994) “Come gli aeroplani” (2001), per finire nel 2003 con “L’uomo a metà”. Per quanto mi riguarda, prediligo la fase intermedia che credo più creativa e accattivante, non dico matura, poiché la maturità di Jannacci è indiscutibile fin dai primi album.

 

jannacciAncora da segnalare sono le collaborazioni. Con Giorgio Gaber, dai “Due corsari” dei primi anni sessanta ai Jaga Brothers degli anni ottanta, con Milva per la quale scrive e arrangia l’intero e ottimo album “La Rossa” (1980), coi jazzisti Stan Getz, Chet Baker, Gerry Mulligan e nostri Tullio De Piscopo e  e Franco Cerri. E poi ancora il teatro serio (chi ricorda un “Aspettando Godot” in coppia con Gaber?) e meno serio, “Saltimbanchi si muore” con Cochi e Renato, e poi la televisione (pur con tutte le censure che subiva) e i Festival di Sanremo dove vinse più volte il premio della critica. Questa breve retrospettiva finisce qui. Monca e imperfetta poiché non basterebbe un libro per descrivere compiutamente l’artista Jannacci, ma si spera comunque di avere dato qualche indicazione a chi volesse approfondire un personaggio del quale abbiamo dato tante definizioni senza dimenticare quella di poeta, poiché Jannacci era anche questo e basta una sola breve canzone per dimostrarlo ampiamente: Si vede contenuta nell’album “Ci vuole orecchio”. Ascoltare per credere.

Maurizio Pupi Bracali

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