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7 Febbraio 2012

Scott Crary Kill Your Idols

2004 - Usa

“Il movimento No Wave non era il capitolo successivo della musica rock. Era una negazione del rock’n’roll. Era un’apologia del rock’n’roll. Un’apologia necessaria, dato che il rock’n’roll non era diventato altro che ribellione mercificata. E quindi niente affatto ribelle o innovativo. È impossibile ereditare la No Wave. Non è un genere. È un concetto”.

(Scott Crary)

 

New York e l’arte d’avanguardia e sperimentale vanno a braccetto da ormai un bel po’ di anni. Dai tempi della Factory di Warhol (solo per citare il fenomeno artistico più universalmente noto, ma di certo non il primo) la Grande Mela ha dettato i canoni estetici dell’avanguardia al resto del mondo, spodestando altre città (come Parigi) dal ruolo di fucina di idee nuove, di estetiche rivoluzionarie, di tendenze, insomma, da esportare nel resto del pianeta. Che si trattasse di arte, di cinema, di musica pop o di musica “colta”, da un certo punto in poi della storia dei fenomeni artistici (individuabile, forse, tra gli anni ’50 e ‘60) tutto passava da New York, tutto nasceva a New York.

 

New York era (è) il metro dell’avanguardia, il giudice massimo di qualsiasi fenomeno estetico, almeno inteso in un certo modo (e questo naturalmente può essere un bene, ma ha anche i suoi lati negativi, nelle sue degenerazioni modaiole, che trasformano facilmente l’avanguardia in snobismo).  Il documentario di Scott Crary, "Kill Your Idols"  (ed i fans dei Sonic Youth capiranno forse prima degli altri l’origine di questo titolo) è innanzi tutto un documentario su New York, sui suoni di New York, su New York come città “sonica”. Dai primi anni Settanta, dall’endless party dei New York Dolls (tutto è cominciato da lì, e non ci stancheremo mai abbastanza di sottolineare l’importanza seminale di questa band), passando per la rivoluzione punk (Dead Boys, Cramps), fino alle apocalissi sonore della fine dei Settanta e anni Ottanta (Suicide, Lydia Lunch, DNA, Glenn Branca) e al suono degli ultimi decenni (Liars, Yeah Yeah Yeah, Black Dice, Gogol Bordello) il DVD documentario di Scott Crary  ripercorre la storia della città e delle sue bands attraverso interviste, spezzoni d’epoca, videoclip, testimonianze. E in molti casi il suono è davvero la colonna sonora dell’apocalisse, di un’apocalisse che, nata e cresciuta nella metropoli, non poteva che basarsi sul rumore (su quel noise che da semplice sostantivo è diventato ben presto etichetta di un genere musicale); è quel suono d’apocalisse che, come afferma Alan Vega, intervistato all’inizio del film, descrive alla perfezione il sound della sua band, i Suicide. L’estetica del rumore caratterizza un certo suono di New York dalla fine degli anni Settanta a oggi, quasi come se fosse una risposta all’esaltazione zen del silenzio di un altro grande dell’avanguardia americana, quel John Cage che vedeva il futuro della musica nella riscoperta del vuoto sonoro.

 

Un’estetica totalmente metropolitana, quella della No Wave, decisamente post-industriale e d’avanguardia (intesa davvero come élite culturale colta), ma soprattutto “psicogeograficamente” legata alla città, intesa come agglomerato di etnie ed influenze, regno di un caos che doveva essere trasformato in musica.  Il punto di svolta è stato ovviamente "No New York", il disco collettivo realizzato nel 1978 sotto la sapiente (e scaltra) regia di Brian Eno, che riuscì a creare una leggenda partendo da fenomeni squisitamente underground (Contortions, DNA, Teenage Jesus & The Jerks, Mars). No New York è il punto di svolta (e il punto di non ritorno) perché rappresenta la conversione “intellettuale” del punk: nota giustamente Glenn Branca (e gli fa eco Thurston Moore) che la No Wave epurò dal punk la tradizione blues (quella che, per intenderci, stabiliva un rapporto genealogico tra Chuck Berry e Johnny Thunders) lasciando intatto il solo radicalismo delle idee. Il punk aveva predicato la fine del passato, ma solo il post-punk – e la No Wave in particolare – aveva davvero ucciso i propri idoli. Si assisteva dunque in quegli anni ad un’evoluzione del movimento punk newyorkese attraverso il paradossale disconoscimento del suo retaggio musicale (l’uccisione degli idoli). Sopravviveva l’idea del punk, ma la musica subì un mutamento radicale. Il cambiamento all’interno della scena nel passaggio tra il punk e il post-punk fu un cambiamento innanzitutto sociologico: alla rabbia proletaria del punk rock si sostituivano gli studenti d’arte folgorati dal punk, ma influenzati anche dalle avanguardie e dai loro linguaggi; mescolando queste due influenze reinventarono il rock’n’roll (ma era ancora lecito chiamarlo così?) della Grande Mela.

 

Questa nuova generazione ereditò la New York “sporca” del glam e del punk (la New York di "Taxi Driver"  potrebbe essere un riferimento iconografico utile a capire i contesto) e la reinterpretò a sua immagine, e soprattutto la cantò col rumore. Il trait d’union tra i due mondi è rappresentato al meglio dai Sonic Youth, la band più longeva, il gruppo che ha rivisitato il punk (dagli Stooges ai Crime) e ha trasmesso una nuova “tradizione” alle band di oggi (e non a caso tutti i gruppi contemporanei coinvolti nel documentario menzionano la Gioventù Sonica come prima influenza per il loro sound). Se il punk, dunque, aveva estremizzato il linguaggio del rock’n’roll facendolo diventare qualcosa d’altro e, quasi paradossalmente, qualcosa di nuovo, il post punk partiva dal presupposto – tutto avanguardistico – della ricerca del nuovo attraverso la decostruzione (se non la distruzione concreta) del passato, attraverso l’idea stessa del nuovo che tornava ad essere l’obiettivo delle nuove band. E l’idea è passata dai gruppi degli anni Ottanta fino alle band di oggi: è questo il messaggio ultimo del documentario di Scott Crary, il rapporto – potremmo dire quasi filiale – che le nuove band di New York hanno istaurato con i loro predecessori. Un rapporto che però non riguarda tanto la musica o il suono inteso in senso concreto (difficile, partendo da questi parametri, trovare affinità musicali tra i DNA e i Gogol Bordello), quanto piuttosto l’attitudine, quell’inclinazione tutta newoyrkese (ma a noi, dalla periferia dell’impero, verrebbe da chiederci: solo newyorkese?) di approcciarsi alla musica, e più in generale, alla creatività. Il giudizio sulla No Wave è complesso, e sfocia molto spesso in questioni di lana caprina (“chi furono i veri nichilisti, i Sex Pistols o i DNA?”;  “chi distrusse davvero l’idea tradizionale di musica, Patti Smith o Lydia Lunch?”).

 

Una soluzione univoca è impossibile darla: ci basti porre l’accento sul cortocircuito continuità/rottura col punk, che è forse la chiave di lettura, tutta contraddittoria, che spiega un fenomeno che in sé nasceva come volutamente irrisolto, almeno dal punto di vista estetico. Sulle altre questioni non forniremo una risposta, né ci interessa farlo: certe cose la lasciamo ai fan dell’uno o dell’altro genere. Così come non ci metteremo a discutere sulla – in molti casi opinabile – stretta parentela tra le band No Wave e alcune band di oggi, e ci limiteremo a dire che forse questo rapporto diretto va un po’ sfumato rispetto a quanto emerge dal film, prima di tutto perché l’avanguardia, per sua stessa definizione, non può creare una progenie, non può diventare un “classico”  da cui nasce una scuola, pena la fine del concetto stesso di avanguardia. Il bello dell’avanguardia, in fondo, è il suo essere irrimediabilmente sterile (concetto che forse non è ben chiaro a molte band che oggi si rifanno a quei suoni…). Al di là delle discussioni sui massimi sistemi resta però l’ottimo documentario di Steve Crary, le voci chiamate in causa, le immagini di repertorio, e il suo tentativo riuscito di raccontare per suoni e immagini una scena che  – parole del regista – “per definizione rifiutava la nostalgia e rifiutava di lasciare eredità”. Ma soprattutto resta New York e la sua musica (e il suo noise). 

Luca Verrelli
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