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12 Febbraio 2015

Fish 8 Febbraio 2015, Milano, Blue Note


Fish-300x300Una limpidissima giornata inaspettatamente quasi primaverile accoglie a Milano il pubblico di Fish, per un concerto tanto atteso. L’attesa così spasmodica è dovuta al fatto che lo show si sarebbe dovuto tenere alla fine di novembre, ma purtroppo gravi problemi di salute hanno costretto il cantante scozzese a cancellare la maggior parte delle date italiane e francesi della tournèe. Purtroppo gli anni passano e questo vero e proprio mito per gli amanti del neo-progressive si sta trovando a fare i conti con un passato dalla condotta di vita non proprio salubre e con alcuni eccessi giovanili. Per questo motivo, infatti, il concerto milanese risulta tanto atteso quanto pervaso da un velo di tristezza: da pochi giorni circola la notizia che Fish sia intenzionato ad abbandonare le scene entro il 2016, o al massimo il 2017, per fuggire anche dalla natìa Scozia, trasferirsi in pianta stabile in Germania con l’ennesima moglie (difficile, ormai, tenere il conto) e dedicarsi esclusivamente all’attività di scrittore. 

 

Lo stesso Fish, quando sale sul palco, ironizza sui tre mesi circa di rinvio del concerto, e saluta dicendo: “Ciao Milano, mi sembrava di dovervi dire qualcosa… ah sì! Happy Christmas! Happy New Year!”. Scherza anche bonariamente sulla location: infatti, a novembre, il concerto si sarebbe dovuto tenere ad Assago. La riorganizzazione dellaFish tournèe ha fatto sì che l’unico locale libero in concomitanza con la disponibilità del management fosse il Blue Note, un raffinato jazz-club dal taglio molto “high society” che in passato ha accolto nomi del calibro di Chick Corea e che a breve dovrà ospitare Billy Cobham, gli Spiro Gyra e Dee Dee Bridgewater; insomma, tutt’altre sonorità rispetto a quelle dell’ex-cantante dei Marillion, che nei suoi ormai 25 anni di carriera solista si è spostato verso un sound energico, a tratti quasi hard, e qua e là venato di prog-rock. “Qui hanno un tappeto migliore di quello che ho nel mio soggiorno”, commenta Fish indicando il palco sotto i suoi piedi.

 

La serata si potrebbe ipoteticamente suddividere in tre parti: la prima fortemente incentrata sui lavori più recenti, con l’apertura affidata proprio all’opener dell’ultimo album “A feast of consequences”, la celticheggiante Perfume River, seguita dalla title-track, per poi passare a due brani dall’immediatamente precedente “13th Star”, Manchmal e Arc of the Curve. La seconda parte dello show è un’unica suite ancora tratta dal nuovo album, che fish Fish introduce con un discorso di presentazione sugli orrori della guerra e sui ricordi dei suoi due nonni, che avevano combattuto al fronte. Solo il finale del concerto è dedicato a un salto indietro nel tempo, affidato dapprima a una poderosissima e coinvolgente versione di Slàinthe Mhath, da “Clutching at straws” dei Marillion, estremamente trascinante per tutto il pubblico presente, che la canta a squarciagola dall’inizio alla fine. Con Vigil, il brano che apriva il suo esordio solista del 1990, l’album “Vigil in a wilderness of mirrors”, come da tradizione Fish scende tra il pubblico, abbraccia la folla, stringe mani, sale in piedi sui tavoli e le sedie, mentre qualche papà tra il pubblico si avvicina alzando il proprio bambino, quasi a fargli avere una sorta di benedizione papale dall’ultimo “Profeta del neo-prog”. Ancora da quello stesso album del ’90 arriva Big Wedge, brano sulle contraddizioni dell’economia americana. Chiusura di concerto tra le lacrime di commozione del pubblico con Heart of Lothian, canzone che chiudeva il lato A di quel “Misplaced Childhood” che ancora oggi rimane il suo successo mondiale più grande e che proprio quest’anno compie il trentennale dalla pubblicazione.

 

Richiamata sul palco, la band concede un solo bis: Incubus, dall’altro grande capolavoro dei Marillion, l’album “Fugazi” del 1984. La scaletta prevederebbe anche un secondo bis, quella The Company che è diventata negli anni un tale inno per gli amanti di questo gigantesco scozzese da dare il nome persino al suo fans-club ufficiale. Ma le tempistiche di un jazz-club non sono quelle degli stadi del rock: il tempo stringe e lo staff tecnico fa cenno al cantante di chiudere prima. La band che accompagna Fish in questa tournèe è quasi certamente la sua migliore di sempre: unfishsgarlato quartetto di strumentisti solido e compatto attorno al cantante che vede riconfermati due tra i suoi più fidati collaboratori di lunga data, il chitarrista Robin Boult e il bassista Steve Vantsis, alla batteria Gavin Griffiths, dal drumming brillante e colorato e, new-entry alle fishtastiere, nientemeno che John Beck, proveniente da un’altra storica band del neo-prog più sotterraneo degli anni ’80, gli It Bites. L’intero nuovo album è reso con grandi atmosfere, seppur con un largo uso di basi, dalle cornamuse che aprono il concerto agli intermezzi bandistici. Le partiture degli album più vecchi sono dominate dalla band con grande sicurezza e in particolare Heart of Lothian, Slàinthe Mhath e Big Wedge risultano di una potenza granitica, anche se a onor del vero di fronte a una “perla” elaborata e complessa come Incubus, le pur azzeccate e godibilissime divagazioni soliste di Boult e Beck non reggono il confronto con il “tocco magico” di Rothery e Kelly.

 

Dal punto di vista vocale, Fish ha visto certamente giorni migliori ma anche momenti peggiori; ribadendo la suddivisione del concerto in tre parti, nella prima il timbro risulta ancora un po’ freddo e a tratti lievemente calante, l’apice della performance è sicuramentefish tutta la sezione affidata alla suite centrale, mentre nel finale, sui vecchi classici, complice anche un po’ di stanchezza, il nostro fa fatica e non poco. Tutto il momento più intimista di Incubus, originariamente in falsetto, viene trasposto in una sorta di quasi-recitato su toni molto gravi. Concerto non molto lungo: un’ora e mezza tracciata con precisione quasi cronometrica, più una decina di minuti circa di ritorno sul palco per l’unico bis. Il locale non è enorme, ma risulta gremitissimo e, considerando i numeri a cui purtroppo è ormai da tempo abituato il rock progressivo da diversi anni a questa parte, un’affluenza di questo genere si può considerare un vero successo. Alla fine sono ancora in tanti, tra i fans più accaniti, ad aspettare un saluto da Fish nel dopo concerto. E il vecchio leone scozzese, seppur stanco e visibilmente provatissimo, si fa aspettare un po’ ma alla fine ha ancora un sorriso, una parola cordiale e una pacca sulla spalla per tutti. Un “piccolo rito” segnato dall’amarezza che in Italia potrebbe consumarsi per l’ultima volta.

Alberto Sgarlato

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