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7 Aprile 2014

Black Lips UNDERNEATH THE RAINBOW

2014 - Vicerecords
[Uscita: 18/03/2014]

blacklipsUn mantra che ormai sembra ripetersi sempre più insistentemente in questi ultimi anni è: vecchio è bello. Ne sono una prova i Black Lips, il quartetto americano che dalla Georgia ha condotto la propria decennale carriera cavalcando l’onda di un surf rock adolescenziale miscelato con grezzi riff stile garage, assoli lisergici e testi a dir poco fuori di testa. La loro musica è un’energia esplosiva che ha dato i frutti più rivoluzionari durante i primi lavori, con album lo-fi come l’lp dal chilometrico titolo We Did Not Know the Forest Spirit Made the Flowers Grow” e la loro punta di diamante “Let it Bloom”, un cd che, se non fosse indicata sulla copertina l’anno di registrazione (2005), avremmo giurato prodotto da qualche comunità hippie della west coast degli anni 60. Una scarica di adrenalina che i Black Lips riuscivano a riproporre (se non amplificare) anche nei live, come testimoniano il cd “Los Valientes del Muendo Nuevo” e i numerosi episodi di vomito e nudità esibiti durante i loro vecchi show, comportamenti forse ispirati dal misconosciuto guru punk GG Allin. Il suono nel tempo si è pian piano ripulito e rifinito negli arrangiamenti, perdendo di immediatezza, ma acquistando di qualità melodica.

 

Merito in primis del produttore Mark Ronoson che in “Arabia Mountain” riesce a creare il perfetto equilibrio tra lo spontaneismo punk dei Black Lips e la qualità sonora che il terzo millennio riesce ad offrire a qualsiasi band dotata di un computer. La magica alchimia sembra non riuscire altrettanto bene nel successivo album, l’ultima fatica del quartetto rock “Underneath the Rainbow”. Un motivo di questo calo è sicuramente dovuto al cambio di produzione, con Patrick Carney, il batterista dei Black Keys, che cerca di tirare il meglio che può dal sound dalle canzoni del nuovo album. Apprezzabile il suo sforzo, ma inblack-lips-underneath-rainbow qualche sporadico episodio calca troppo la mano, dando un’impronta eccessivamente personale al lavoro dei Black Lips, come accade in Dandellion Dust, un blues che potrebbe tranquillamente stare in un cd dei Black Keys. L’unico vero punto di contatto con il disco precedente lo troviamo in Drive-by Buddy, un inizio molto promettente che riprende l’atmosfera surf rock ampiamente sperimentata in Arabia Mountain, ma la arricchisce aggiungendo un gusto melodico vispo e allegro che richiama i primi Beatles. Dello stesso spirito sono Dorner Party, il brano più tirato dell’album, e Smiling, che, proseguendo il frenetico ritmo della traccia di apertura, non può non strappare un sorriso dal viso dell’ascoltatore; la melodia solare e il colore che la voce alla Joey Ramone di Cole Alexander riesce a dare alla canzone sono un mix emozionante.

 

Troviamo spunti interessanti anche in Do the Vibrate, la canzone più sperimentale dell’lp, dove lo schizofrenico ritornello viene pompato da una voce straziata al limite dell’esaurimento nervoso, il risultato è un’atmosfera squilibrata alla “Fun House”(Stooges). A parte questi momenti di qualità il disco manca di ispirazione: la canzone di punta, Boys in the Wood, non convince nel suo andamento blues in sei ottavi e nella sua melodia smaccatamente retrò, risultando più una parodia di una canzone dei Black Keys che un black-lipstentativo di salire la classifica. Anche I don’t Wanna Go Home, che fa il verso ai ritmi country filtrandoli attraverso arrangiamenti e melodie grezzamente punk, non ha molto da dire, una canzone canticchiabile ma che scivola completamente via dopo dieci secondi che l’hai ascoltata. Il disco sembra voler tornare alle origini, senza però tener conto che le cose sono cambiate da quando, appena ventenni, fissarono nel loro lavoro d’esordio una furia allucinata, tribale ed esaltata. Le melodie sono in certi frangenti coinvolgenti sul momento, ma il più delle volte non trascinano l’ascoltatore e, soprattutto, non restano impresse. Le canzoni slittano via leggere, senza dare colpi allo stomaco; i Black Lips sembrano spaventati dalla svolta raggiunta con Arabia Mountain, e, piuttosto che proseguire sulla strada intrapresa,  sembrano preferire fare un passo indietro nel rassicurante mondo “immaturo” musicale che li ha cullati per oltre un decennio.

Voto: 6/10
Lorenzo Berretti

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