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24 Dicembre 2014 , , ,

Dirty Beaches STATELESS

2014 - Zoo Music
[Uscita: 04/11/2014]

Corea                                                                        # Consigliato da Distorsioni

statelessAlex Zhang Hungtai, con il suo progetto one-man-band Dirty Beaches, esordisce nel 2008 con sonorità che fanno pensare di ‘avere sbagliato disco e aver messo su il primo leggendario esordio dei Suicide’ (Ricardo Martillos cit.) mantenute fino al 2011 in “Badlands”. Girovago, dichiaratamente apolide, l’artista coreano nativo di Taipei e trapiantato in Quebec, nel 2013 vira verso il maggiormente avantgarde “Drifters/Love Is The Devil”, con massiccia presenza di musicisti, mai così tanti prima di allora nei ruoli imposti dalle partiture di Hungtai. Il disco è segnato dall’ennesimo cambio di residenza, stavolta direzione Europa: è Berlino la città ispiratrice della vera novità, che funge da anello di congiunzione con il nuovo “Stateless”, interamente composto e registrato in solitudine (a tarda notte, quando nessun altro è presente in studio di registrazione), otto tracce quasi interamente strumentali e vagamente ispirate alla parte più cosmica del Krautrock tedesco. Alex abbraccia sempre di più le ambientazioni oniriche espresse dei suoi idoli cinematografici Wong Kar-Wai  e Lynch, perenni fonti d’ispirazione per l’uomo ‘senza stato’. Dalle sue stesse parole lo pseudonimo Dirty Beaches gira attorno alle tematiche introspettive della sua vita, segnata dai numerosi spostamenti, dal suo sentirsi perennemente senza una casa verso cui tornare, in perenne esilio, avvolto dal tempo che influenza e distorce le relazioni con chi o cosa. Come fosse un film vivente di Kar-Wai. Ed è da qui che sorge l’idea di dover chiudere il cerchio: annunciato mesi prima della sua uscita come l’ultimo lavoro sotto il nome di Spiagge Sporche, Stateless - registrato tra Lisbona e Treviso - è un concept sull’introspezione e sulla fugacità del vissuto in relazione al tempo: un disco ossessionato dalla ciclica struttura temporale che a sua volta è composta da casuali rimescolamenti di modelli e algoritmi. Infatti “Tutto il dolore è temporaneo, come la gioia, la rabbia, il dubbio e tutte le emozioni umane.Niente è per sempre” a detta di Hungtai.

 

dirtyInteramente strumentale, senza dubbio autobiografico, Stateless sin dalla copertina sembra richiamare il Philip Glass di “Koyaanisqatsi”, ma la linea armonica in questo caso è ancor più ridotta, quasi assente, rendendo ancor più cupo il risultato finale. Fin dai primi secondi di Displaced si percepisce un senso di straniamento, una cupa consapevolezza di alienazione dalla realtà: siamo di fronte a musica minimalista che ci accompagnerà per il resto dell’opera, ma se in Koyaanisqatsi era la vita sbilanciata dell’uomo a farla da padrone con la sua Luna innaturalmente gigante per via del paragone visivo con un grattacielo, in questo caso i grattacieli hanno ormai coperto tutto il panorama. E si è fatto giorno. Il tempo. Ancora una volta Lui. Su di un pattern in cui vengono campionati e messi in loop il sax tenore e uno sferragliante suono di viola stratificato – che dà l’idea di uno stormo di uccelli che prende il volo (tramite il synth mirage, ultimo lascito della composizione in bassa fedeltà che aveva caratterizzato il resto della discografia) - Vittorio Demarin esegue piccolissime variazioni rendendo sempre più presente la sua viola nell’arco dei 7’:27’’ della traccia, per poi lasciare il posto agli unici battiti di tutta l’opera. Lenti, stanchi, rappresentano la realtà cosciente, che non riuscirà mai ad emergere fino alla fine. Demarin è l’unico musicista presente oltre al coreano-canadese e partecipa alla composizione di Displaced, come avverrà anche nell’ultima traccia.

 

Dalla dissolvenza finale di Displaced ci si prepara con un sospiro verso Stateless : l’inizio crea un’ambientazione ancor più profonda, in accordo perfetto con alcune scene di “Inland Empire” (Lynch) : siamo di fronte all’altra faccia della stessa medaglia su cui si poggia la prima traccia (non a caso i due titoli sono sinonimi), stavolta è il synth a farla da padrone su uno strato di loop in cui però è la viola ad accompagnare il sax nella sua malinconica dirty2e ciclica esecuzione. In stile Lightwave o ancora prima Schulze, si assiste ad un crescendo del synth, ma solo simulato dall’affievolirsi dello strato di loop che fa da sottofondo. Senza dubbio siamo di fronte ad una delle vette di pathos di tutto il lavoro, lentamente preparata per un effetto maggiore a livello umorale. Arrivati qui ci si ritrova irrimediabilmente invischiati nello Stateless-mood, e dopo averci trasmesso tutto il suo sentirsi straniero in terra straniera, giunge il turno del più grande e importante compagno di viaggio nell’odissea di Dirty Beaches: Pacific Ocean è l’unico vero crescendo delle 4 piece, facciate, ‘stagioni’ costituenti l’album. Il synth riesce a descrivere il suono che avrebbe il riflesso del sole sulla superficie marina se potesse parlare, un lento ondeggiare luccicante. Al di sotto di esso si stagliano le profondità sempre maggiori dell’oceano, descritte da nuovi strati di tastiera in continua aggiunta fino all’epilogo. L’acqua sembra quindi avere il ruolo di ripulire, levigare e consumare le fosche e malinconiche sensazioni descritte finora, ma nella monumentale traccia finale tutto passa in secondo piano, poiché il tempo pulisce tutto, anche l’oceano stesso. Time Washes Away Everything rimescola tutte le sonorità sentite finora, con un carattere maggiormente armonioso ma non meno decadente. La catarsi raggiunge il suo massimo, sembra di ritrovarsi nella sinistra ambientazione dell’ennesimo sogno, stavolta più consapevole e maturo.

 

L’angoscia lascia il posto all’umana consapevolezza d’esser solo di passaggio. Nei suoi 15 minuti assistiamo ad un duetto tra viola e sax, dove l’assenza della tastiera non si percepisce subito. Anche qui un letto di loop fornisce la base ad una superficie maggiormente espressiva, ma in questo caso le variazioni e le evoluzioni sono continue ed omogenee a tutte le profondità, e non c’è un vero protagonista tra i due strumenti nella zona emergente: essi si alternano in un canto senza parole, smorzato due volte (5’:29’’ e 9’:10’’) quasi a sancire tre cicli di tempo contenuti nel brano. Tutto si ripetedirty3 nel dopo, ma solo vagamente e casualmente simile al prima. Con la dissolvenza finale si chiude questo viaggio, si riemerge dal sogno, dai suoni della mente, e c’è bisogno di un bicchiere d’acqua per riaffrontare la realtà. Meritano una nota di merito entrambi i video di Stateless e Time Washes Away Everything dove il più citato fra i registi idolo (anche Kim Ki-Duk è in questo gruppetto) è senza dubbio David Lynch, data la fortissima carica onirica presente in entrambi. Già, il sogno, la vita: “Some dreams, are worth breaking your limbs for.”, ci sono sogni per cui varrebbe la pena di rompersi gli arti, ma il 2015 è dietro l’angolo e il capitolo europeo volge al termine. “The new year is around the corner as my Europe chapter comes to an end”. Dirty Beaches chiude qui, ma Alex Zhang Hungtai è già pronto per tramutarsi in Last Lizard, il nuovo progetto del 2015 pre-annunciato il mese scorso.

 

Voto: 8/10
Davide De Marzi

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