Migliora leggibilitàStampa
26 Giugno 2020 , ,

Bob Dylan Rough And Rowdy Ways

2020 - Columbia Records
[Uscita: 19/06/2020]

Nell’arco dei suoi 79 anni, Bob Dylan ha vissuto molteplici vite.Todd Haynes, celebre regista dell’anticonvenzionale biopic “I’m Not There”, ha scritturato la bellezza di sei personaggi da lui ispirati per raffigurare le molteplici sfaccettature della sua persona e la varietà dei periodi artistici attraversati nella sua vita. Poeta, profeta, fuorilegge, falso, martire del rock'n'roll, stella d’elettricità: durante la seconda metà di un turbolento ventesimo secolo, Dylan ha ricoperto ognuno di questi ruoli, producendo un corpus di lavoro capace di trasformare e definire il songwriting moderno, tanto da guadagnarsi un premio Nobel per la letteratura che, nelle mani di un musicista, è sicuramente più unico che raro. Se c’è un sentimento che lega questa mastodontica eredità culturale, è di certo il disinteresse che il bardo di Duluth ha puntualmente manifestato verso la soddisfazione dei trend e del mercato musicale, limitandosi ad esplorare la sua passione verso la canzone americana, studiandone le fondamenta e prendendone in prestito le formule chiave, ampliandone gli orizzonti e testandone i limiti, raggiungendo l’impagabile traguardo di averla plasmata ed arricchita con iniezioni cross-culturali appartenenti ai mondi letterari più disparati. Tutto questo, Dylan l’ha fatto senza essersi mai curato di alienare il suo pubblico, evitando le ossessive implicazioni della celebrity-culture come una piaga ed esprimendosi quasi solo esclusivamente attraverso le sue canzoni. Fin da giovanissimo, Bob Dylan si è comportato come una sorta di spugna culturale: ha studiato ed assimilato le tradizioni e gli standard del folk, le visioni dei poeti francesi ed il loro simbolismo, l’umanesimo degli scrittori americani ed il romanticismo inglese, lo stile e l’impronta filosofica della beat generation, la storia americana e l’America stessa, aggiungendovi ciò che ha visto con i propri occhi e sentito sulla propria pelle: le dinamiche politiche e sociali, l’amore e la sua caducità, il senso di distaccamento verso i media, la passione per la letteratura, l’illuminazione divina, e, in tempi più recenti, l’invecchiamento e l’ombra della morte. Sul ciglio delle sei decadi di carriera, nel suo 39esimo album "Rough And Rowdy Ways", il tardo Dylan si contorce su se stesso, riversando su di noi tutta la sua conoscenza: sull’umanità, sul mondo, su se stesso e sulla propria arte, imprimendo il proprio segno sula linea del tempo e posizionandosi lui stesso al centro della narrativa. La venuta del disco era stata annunciata lo scorso marzo con il rilascio a sorpresa di Murder Most Foul, una strabiliante opera di 17 minuti distesa su una trascinante melodia di piano e violino. Una traccia che, per quanto complessa nella sostanza, consegue l'obiettivo di collocare immediatamente l’ascoltatore in un ben preciso periodo storico, all’interno di una ben delineata sfera culturale. Nel brano, diviso a metà tra la brutalità dell’assassinio di Kennedy e un sentimento nostalgico verso la controcultura dei 60's, Bob Dylan ci racconta ciò che lo ha trasformato in Bob Dylan attraverso quegli anni: le sue influenze, i suoi eroi, la faccia della gioventù da lui vissuta. Lo fa con consapevolezza, con originalità, interagendo con la figura iconica del DJ Wolfman Jack e riversando sul testo un’enorme quantità di connessioni musicali, da Thelonius Monk a Jimi Hendrix passando per il suo eroe Little Richards, scomparso di recente. Un pezzo che già di per sé è ricco di referenze di carattere personale ed autobiografico, posto a testimonianza dell’immenso spettro del personaggio in questione. “I’m a man of contradictions/I'm a man of many moods”, confessa con voce graffiante e baritonale nel singolo, ispirato ad un poema di Walt Whitman. Così, con un introspettivo aforisma esistenzialista dipinto su una cornice di sparsa strumentazione, si apre il primo lavoro di materiale proprio pubblicato dal lontano 2012, in cui il leggendario menestrello si concede con elusività come solo lui è capace di fare, con rivelazioni introspettive e giustapposizioni assurde; d’altronde, chi altri se non Dylan potrebbe paragonarsi simultaneamente ad Anna Frank, Indiana Jones ed i Rolling Stones? Ma in un disco ricco di esperienza come "Rough And Rowdy Ways", gli stratagemmi letterari non si esauriscono qui. Nella drammatica ‘My Own Version of You’ Dylan si diletta nel costruire, guidato da un sinistro basso discendente, una sua personale riproduzione di Frankenstein, impiegando frammenti di celebri personalità (“Scarface Pacino”, “Godfather Brando”, Mr. Freud with his dreams, Mr. Marx with his ax) e portandola alla vita con l’iconica scarica elettrica descritta nel romanzo di Mary Shelley. In classico stile Dylan, l’opera è pregna di perle culturali, adiacenti ai mondi della letteratura, della psicanalisi, della filosofia, dello spettacolo e della politica: ora si pone nelle vesti di Omero e si cimenta nella recitazione un proemio epico in forma musicale (Mother of Muses); ora, sopra uno sfondo di incantevole fisarmonica nella perla Key West (Philosopher Pirate), ci racconta con nostalgia dell’influenza tratta dai beats e del suo sentimento di identificazione con il loro movimento (“I was born on the wrong side of the railroad track / like Ginsberg, Corso, and Kerouac”). Al contrario di come può spesso accadere nel lavoro di questo straordinario autore, i personaggi chiamati in campo nello sviluppo delle storie non si nascondono dietro misteriose invenzioni allegoriche: I nomi propri sono una costante ricorrente nell’album, come lo sono le indicazioni geografiche (“From Salt Lake City to Birmingham, From East L.A. to San Antone”, citate in I Made Up My Mind To Give Myself To You); al contrario, questi squarci di realtà rendono la poetica visionaria di Dylan maggiormente terrena, tangibile. In questo stadio della sua esistenza, lo stile di scrittura é quello di un maestro all’opera, al picco delle proprie possibilità; le immagini audaci e i congegni letterari che nei suoi precedenti lavori sembravano risaltare, con l’ausilio del flusso di coscienza, appaiono qui addomesticati e canalizzati in un risultato finale più propenso alla comprensione. Alla struggente fragilità dei brani più quieti è contrapposta, come da copione, una buona dose di old school blues, in cui emergono i tratti più insolenti dell’Americano: “I am the first among greats / second to none”, sputa fuori Dylan con il suo croon arrugginito in False Prophet.  L’ incurante spavalderia scaturita dalle composizioni più aggressive sfocia addirittura in un comico tentativo di machismo in Goodbye Jimmy Reed (Transparent woman in a transparent dress / I’ll break open your grapes, I'll suck out the juice), un tributo all’eroe della vecchia religione del blues. Se non fosse per questi polverosi shuffle, il disco potrebbe tranquillamente passare per un’opera di spoken word: La strumentazione della rinomata backing band è minimale, quieta e rarefatta; a contrasto con i contenuti sostanziosi del lirismo, tale scelta rende inevitabilmente la musica secondaria, quasi adibita a retroscena, semplici e classici ma minuziosamente ponderati e ricchi di meraviglia e raffinatezza. L’immensa stratificazione di significato contenuta nell’album potrà bastare a placare la sete dei cosiddetti Dylanologhi per un po’, particolarmente se vengono presi in considerazione i contenuti più vaghi e misteriosi come quelli della spagnoleggiante Black Rider, in cui viene affrontata con ostilità una figura anonima che potrebbe essere paragonata al Mr. Jones di “Ballad Of A Thin Man”. Tuttavia, al di là di opinabili studi del testo si cela una verità che, forse, non ha bisogno di essere analizzata: come tutti i grandi scrittori, romanzieri e poeti, il tema universale del lavoro di Dylan è radicato nel racconto dell’umanità e dei suoi meccanismi. Parla di dove è stata, di dove si trova, e di conseguenza mette in discussione dove è diretta; lo fa spaventandoci, commuovendoci, stupendoci, divertendoci, illuminandoci, aiutandoci a dare un senso a tutto quello che, per definizione, è assurdo, anche se ciò vuol dire semplicemente accettarne l’esistenza. Quello che separa Bob Dylan dal resto degli artisti e che lo rende incomparabile, è la sua abilità lirica nel fondere il conosciuto con lo sconosciuto, quel talento che traspare nell’affrontare, in una sola canzone, la vita, la morte e tutto quello che c’è nel mezzo, di avvolgere verità universali in fasce di complesse astrazioni, ma sopratutto di essere il primo (e forse unico) musicista al mondo in grado di farlo. Un creatore che avanza verso la fine della sua carriera, ancora capace di deliziare il mondo con lavori reminiscenti del passato, inscindibili dal nostro presente, e necessari per inquadrare il futuro. Senza tempo, come d’altronde è sempre stato il dono della sua arte.

Voto: 7.5/10
Gabriele Bartoli

Audio

Video

Inizio pagina