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8 Settembre 2016

The Dead Daisies MAKE SOME NOISE

2016 - Spitfire Music-SPV
[Uscita: 5/08/2016]

Stati Uniti  #consigliatodadistorsioni     

 

Dead Daisies MAKE SOME NOISEThe Dead Daisies, le “margherite morte” sono quello che negli anni ’70 sarebbe stato definito “un supergruppo”: la formazione di questo Make some noise, infatti, vede arrivare per questo terzo album accanto al fondatore e chitarrista David Lowy, unico elemento stabile dei Dead Daisies, addirittura un nome del calibro di Doug Aldrich, chitarrista che ha suonato con Dio e Whitesnake, solo per citare alcune collaborazioni, oltre al cantante John Corabi (ex-Motley Crue), al bassista Marco Mendoza (che ha suonato in alcune delle tante incarnazioni dei Thin Lizzy) e, infine, il batterista Brian Tichy (collaboratore di Billy Idol e Ozzy Osbourne e batterista dell’ottimo “Can’t slow down” dei Foreigner). Alla fine il meno blasonato è proprio il fondatore David Lowy: del resto il 62enne australiano proviene da una solidissima famiglia di imprenditori e non ha certo problemi a reclutare alcuni dei migliori musicisti sulla piazza da porre al suo servizio. I nomi sopraelencati già dicono tutto: siamo di fronte a un onesto e godibilissimo hard rock non proprio “di primo pelo”, fatto di riff dal sapore squisitamente americano, tanto glam, un tocco bluesy, ma soprattutto molte accattivanti melodie con una strizzata d’occhio a un certo mercato radiofonico che, oggi, è davvero difficile dire se esista ancora. 

 

L’album scorre benissimo, senza picchi, senza sorprese ma anche senza cadute di stile e senza delusioni. Le chitarre offrono un ottimo supporto costante alla voce di cartavetro di John Corabi, che solo per brevi tratti evoca di straforo, in certe sfumature, Steven Tyler. I brani sono pariteticamente firmati da sei musicisti, contando tra gli autori anche il makeproduttore Marti Frederiksen, altro personaggio dal curriculum infinito (Ozzy Osbourne, Aerosmith, Faith Hill e il film “Almost Famous”, solo per citare minimi esempi di una lunga carriera). E non trascuriamo di menzionare due cover rese decisamente bene: una Fortunate Son di John Fogerty che diventa un fantastico manifesto glam degno del “Rocky Horror Picture Show” e, come chiusura del disco, una Join Together degli Who resa con un andamento dead1veramente solenne e marziale. Insomma: se credevate che certo “classic rock” oggi non esistesse più, se avete sempre pensato che i Guns n’ Roses fossero già morti dopo “Live like a suicide”, se riuscite a provare una certa eccitazione solo riguardando i vecchi video di Suzi Quatro, Pat Benatar e Lee Aaron, se ogni sera accendete un cero in memoria di Phil Lynott e se al pensiero di un probabile scioglimento degli Aerosmith cercate subito di annegare il dolore nell’alcool, allora questa è la band che fa per voi.

Voto: 8/10
Alberto Sgarlato

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