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19 Febbraio 2018 ,

H.C. McEntire LIONHEART

2018 - Merge Records
[Uscita: 26/01/2018]

Stati Uniti

 

a0353661186_10Il country di matrice americana costituisce sempre una sorta di legame vincolante da cui è impossibile staccarsi senza risultare blasfemi. Ci prova in “Lionheart”, suo primo album solista, la front-woman dei Mount Moriah, Heather McEntire, un tentativo di affermarsi al di fuori dal rigido schematismo del genere. Sulla scorta di quanto già fatto ascoltare con la band, la McEntire prova a rompere le ferree catene del country introducendo elementi che rappresentano una “rivoluzione” più concettuale che strettamente musicale. Lei stessa, d’altra parte, è un forte elemento di provocazione in un mondo, come quello “sudista” americano, marcatamente conservatore: donna, lesbica, in una realtà ancora profondamente “maschilista” e legata all’ormai logoro concetto di “famiglia tradizionale”, Heather McEntire è in qualche modo la sentinella di un cambiamento culturale che, volente o nolente, interesserà prima o poi anche l’America più chiusa e ostinatamente cristiana. Lionheart assume caratteri d’interesse più per l’aura che lo contorna che per i contenuti strettamente artistici. Nove belle ballate perfettamente calate nel mood del genere, senza che vi siano reali picchi o vertici compositivi e interpretativi. Accompagnata dal Mount Moriah Casey Toll (basso e tastiere), Phil Cook (chitarra) e Daniel Faust (batteria), H.C. McEntire ospita nel disco diverse figure femminili quali Kathleen Henna, Mary Lettimer, Amy Ray etc.

 

Oltre quindi alla connotazione “rosa” il disco non sembra contenere altri momenti particolarmente memorabili: Yellow Roses, When You Come For Me, A Quartz in the Valley sono brani senz’altro buoni ma danno l’accentuata sensazione di “già ascoltato”. Il 0011566778_10livello sale un poco quando McEntire si orienta verso sonorità più spinte (Baby’s Got the Blues, Red Silo), quando tenta un non troppo convinto esperimento elettronico (Wild Dog, pur senza far gridare al miracolo, resta uno dei momenti più interessanti del disco), o quando mette in mostra slide di chitarra desert rock (Dress in the Dark). La traccia migliore dell’intero lavoro è l’iniziale A Lamb, A Dove,  un tenero e avvolgente soul-gospel irrorato di suggestioni country che, vista la posizione all’interno del disco, sicuramente contribuisce a innalzare il livello di aspettativa sul prodotto finale (mantenuta più avanti in One Great Thunder, dolce ballata breve arricchita dal sapiente uso degli archi). Un nome così altisonante lasciava sperare in un guizzo in più, pur restando il lavoro ben al di sopra della mediocrità propinataci dal mainstream inde-pop cantautorale contemporaneo.  

 

Voto: 6/10
Riccardo Resta

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