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22 Novembre 2019 , ,

Michael Kiwanuka Kiwanuka

2019 - Polydor
[Uscita: 01/11/2019]

Chi non conosce bene la biografia di Michael Samuel Kiwanuka pensa che la sua sia sempre stata una esistenza felice con il successo arrivato anche troppo velocemente. Peccato però che i suoi genitori sono dovuti fuggire dalla terra natia dell’Uganda per sfuggire ad Amin, uno dei tanti crudeli dittatori africani che noi europei molto spesso ignoriamo o facciamo finta che esistono solo in qualche film che vediamo in tv. Lui è nato a Londra nel 1987, otto anni dopo la fine del periodo di oppressione (eufemismo) del popolo ugandese che ha avuto come paladino Joseph Kiwanuka catturato e poi ucciso barbaramente da Amin che lo fece decapitare e riporre in un congelatore. Storie drammatiche e inquietanti, ma noi in fondo dovremmo solo occuparci di musica. Ed ecco quindi il nostro ragazzo di Muswell Hill, quartiere londinese rimasto impresso nella memoria di tanti per aver dato inizio all’avventura musicale dei fratelli Ray & Dave Davies e dei Kinks, quanto però di più distante dalla proposta musicale di Michael Kiwanuka. Per avere le giuste coordinate d’ascolto, spalmate sui tre dischi finora pubblicati, dobbiamo citare il meglio della musica nera di sempre: Stevie Wonder, Sam Cooke, Bill Withers, Terry Callier, Marvin Gaye, Curtis Mayfield, esagerando anche Arthur Lee e i Love di “Forever Changes”, ma non vi fate prendere troppo dall’entusiasmo nel leggere queste righe, Kiwanuka non ha mai raggiunto simili vette artistiche ma qualche tentativo lo ha fatto. Dotato di indubbio talento, questo va detto, non per caso una superstar come Adele lo scelse come supporter nel tour del 2011, quando aveva al suo attivo solo due Ep ed allo stesso tempo non era affatto scontato che un debuttante sulla lunga distanza potesse esordire con una label affermata come la Polydor. Fu proprio quella casa discografica che dette alle stampe l’interessante “Home Again” (2012), album che lo rivelò al grande pubblico ma che difettava ancora della giusta esperienza e maturità, perfettamente normale al primo tentativo sulla lunga distanza. A seguire sono passati quattro lunghi anni per ascoltare la sempre difficile opera seconda, prova superata alla grande con un album magnifico come “Love & Hate” che raggiunse sorprendentemente il N°1 nelle Charts inglesi. Inutile dire che gran parte del merito non è dovuto ai 10 minuti super dell’opener Cold Little Heart, ma piuttosto al tormentone Black Man In A White World, forse la canzone più banale e tediosa mai composta dal nostro, ma che lo ha fatto conoscere a grandi e piccini. La solita vecchia storia che si ripete. Per saggiare le sue grandi capacità interpretative è uscito nel Record Store Day del 2018 anche “Out Loud”, album dal vivo registrato in tre diverse location inglesi, sei sole tracce per ben 52 minuti di musica che vorrebbe emulare, senza averne lo stesso impatto emotivo, due album gloriosi dei primi settanta come il “Live “ di Donny Hathaway e il classico “Curtis/Live” del grande Curtis Mayfield. Michael Kiwanuka a questo punto della sua carriera si trovava di fronte a un bivio, continuare sulla strada facile del successo economico provando a ripetersi con un nuovo hit single o dimostrare al mondo intero di avere una integrità artistica da difendere. I dubbi e le perplessità sono stati spazzati via dal nuovo album, bello come al solito, chiamato semplicemente “Kiwanuka” prodotto ancora una volta da Danger Mouse, uno che ha lavorato con gli Sparklehorse. Si sono letti in giro elogi ed iperboli a non finire su questo disco, da parte nostra possiamo dire che Michael non si è superato col nuovo album, piuttosto si è mantenuto sugli alti livelli del precedente, smussando alcuni angoli e raffinando ulteriormente il sound pur con arrangiamenti non sempre impeccabili. L’ascolto del disco rivela i soliti pregi e difetti, pochi, dell’inglese, che pare sempre pronto a spiccare il volo e a regalarci il disco perfetto, ma che poi ci lascia sempre con un po' d’amaro in bocca. Chiariamo meglio il concetto. Ci sono qui dentro 4-5 pezzi di una bellezza assoluta, autentiche gemme che rimandano ai grossi nomi di cui sopra, e che hanno reso immortale la black music nei sixties e seventies, contrapposte ad altre tracce che non hanno lo stesso impatto emotivo. Vogliamo partire proprio da quest’ultime. Ci sono due-tre canzoni che con un po' più d’attenzione in fase di arrangiamento sarebbero state migliori, episodi dove le parti vocali (femminili) non sono proprio il massimo, visto che Michael se la cava decisamente meglio quando se la gioca in solitaria. Non tanto l’apertura, tutto sommato riuscita, di You Ain’t No Problem, l’unico possibile pezzo di un certo richiamo sul pubblico più facile, ma piuttosto Hard To Say Goodbye che si trascina stancamente per oltre 7 minuti, Living In Denial, stucchevole a tratti e il finale di Light non proprio da applausi. Ma sono piccole gocce nell’oceano di un disco che riserva il meglio altrove, dove Kiwanuka dimostra al mondo intero che tante attenzioni che ha ricevuto sono pienamente giustificate. I’ve Been Dazed è uno slow da brividi sottopelle, se fosse stato incluso in un capolavoro come “What’s Going On“ di Marvin Gaye (1971) nessuno avrebbe avuto da ridire. Brano di una bellezza senza tempo, ma non è il solo. Subito a ruota troviamo un altro gioiello chiamato Piano Joint (This Kind Of Love), il cuore qui dice Terry Callier e “What Colour Is Love”, e sulla stessa linea maestra ci sono Solid Ground e la bella Final Days a ribadire il talento dell’uomo di Muswell Hill. Ma c’è pure Hero che contiene una sentita dedica a Fred Hampton, giovane attivista delle Black Panthers ucciso 50 anni fa in un raid dell’FBI a Chicago quando aveva solo 21 anni. Michael Kiwanuka rimane una delle migliori voci in circolazione, quantomeno la sua è sana e autentica black music, anni luce più avanti e molto più godibile dei tanto (misteriosamente) celebrati artisti del rap e hip hop a stelle e strisce, i vari Jay-Z, Kanye West e Kendrick Lamar, artisti più furbi che bravi, in poche parole d’una noia mortale a meno di non conoscere bene la lingua inglese. Ma forse sarebbe lo stesso, sono opinioni, come sempre, e tali devono rimanere. Considerando il tutto, non giureremo che il nostro inglese-ugandese abbia pronto in canna il disco capolavoro, la sensazione, speriamo di sbagliarci, è che il meglio lo abbia già dato pur essendo ancora agli inizi e che dovremo abituarci a lavori belli ma non perfetti come questo “Kiwanuka” che suo malgrado rimarrà fra le cose più interessanti ascoltate nell’anno che volge al termine.

Voto: 7/10
Ricardo Martillos

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