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25 Giugno 2013 ,

Hanni El Khatib HEAD IN THE DIRT

2013 - Innovative Leisure
[Uscita: 30/04/2013]

Hanni El Khatib   “HEAD IN THE DIRT”    30.4.2013 – Innovative LeisureUn paio di anni fa, su questi stessi schermi, parlavamo del sorprendente quanto promettente esordio di questo giovanotto californiano, ma ovviamente di origini extra-americane (mezzo palestinese e mezzo indonesiano, per la precisione), autore di un garage/blues/rock piuttosto potente e dotato di una voce stentorea quanto mai adatta al genere. Dicevamo anche di un disco soddisfacente, ma breve e piuttosto discontinuo, sottintendendo che, dall’autore, ci aspettavamo la necessaria crescita. Il tempo passato e le conoscenze acquisite hanno senz’altro pesato, portando come risultato questo più maturo “Head In The Dirt”. Dietro all’operazione, però, c’è un personaggio tanto famoso quanto influente nella scena rock d’oltreoceano e non solo, cioè Dan Auerbach, uno dei due Black Keys. E’ una presenza che si sente. Se il precedente album, "Will The Guns Come Out"era spontaneo, sporco, rumoroso e a volte ingenuo, questo è professionale, preciso, controllato e anche un po’ paraculo. Un aggettivo che poteva descrivere il suono del precedente album era “scorticato”, qui la situazione è tutt’altra, compaiono backing vocals molto acconce, tastiere ecumeniche, riff appiccicosi. Non è un giudizio negativo, sia chiaro, quello che si vuol formulare: semplicemente la spontaneità ha lasciato spazio alla professionalità, cosa che a noi di Distorsioni lascia appena un po’ di retrogusto amaro.

 

In ogni caso vediamo i contenuti, che sono poi quello che conta: si parte con la title track, pesante e distorta, molto White Stripes con appena un tocco d’organo, poi ce la godiamo con Family, garage/punk piuttosto sixties, bello tosto, uno dei “killer tunes” del disco. Poi ci si calma un po’ con Skinny Little Girl, una specie di ballata con tanto di organo hammond e coretti femminili in sottofondo, ma con un finale pirotecnico, seguita dal poppettino insipido di Penny, buono magari per le heavy rotations delle radio, ma indigesta per i nostri duri cuori di rocker. Per fortuna arriva Nobody Move a riconciliarci con il signor El Khatib, che in questo pezzo riesce con successo a mescolare il reggae della strofa con il garage del riff e del ritornello. È poi la volta di Can’t Win’em All, un mid-tempo lontanamente rollingstoniano già edito come singolo e utilizzato da una nota marca automobilistica tedesca per un suo spot, quindi ecco il sound scabro e potente, chitarra/batteria e via, di Pay No Mind, forse il pezzo che ricorda di più il precedente album, seguito dal “jungle sound” bodiddleyano di Save me, e da Low, un pezzo fuori dagli schemi, condotto dall’organo e dalle percussioni. Ritorniamo in territori più conosciuti con la seguente Sinking In The Sand, dal possente rifferama in stile garage-punk, che ci avvia alla conclusiva House On Fire, una ballata non baciata dall’ispirazione. Senza ripetere quanto già sopra esternato, un disco discreto, che però non mantiene le promesse del lavoro precedente.

Voto: 6/10
Luca Sanna

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