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Dirty Projectors DIRTY PROJECTORS

2017 - Domino Records
[Uscita: 24/02/2017]

Stati Uniti

 

«E così ho fatto ciò che tanti uomini nella storia hanno fatto quando una donna gli ha spezzato il cuore: sono andato in guerra». Questo, a memoria, diceva Ewan McGregor nella sequenza iniziale de “L’uomo che fissa le capre”; in sottofondo: More Than a Feeling. Anche il cuore di Dave Longstreth (il mainman dei DP) è spezzato. Anche lui va in guerra. La sua è una guerra quotidiana, con una post-modernità esibita tronfia come a dirsi «non preoccuparti, va tutto bene». Ma il disco pare comunicare altro. Sette Lp per arrivare a un album, finalmente, omonimo. Dirty Projectors, “Dirty Projectors”. E se stesse davvero qui la più sincera essenza di Dave? Dopo la rottura con Amber Coffman, collaboratrice, amante, musa e chissà che altro, sono trascorsi 5 anni dal più lineare “indie R’n’B” dell’ultimo “Swing Lo Magellan”. Oggi, questo nuovo Longstreth si ritrova scisso (e indeciso) tra DJ e songwriter ai tempi di Logic Pro (ed altri mille software...), cantautore hip hop per fondali sintetici, campionamenti, frammenti, addirittura caricaturali. Roots, Gnarls Barkley, Avicii, Art Ensemble Of Chicago ed un’avanguardia vocale che fa oltremodo affidamento su collage e cut-up, uno zapping a tratti estenuante, disorientante (Death Spiral mette addirittura in loop un frammento delle colonna sonora di Bernard Herrmann per il “Vertigo” di Hitchcock). 

 

dirtyfotoUn apprendista stregone dell’elettronica spoken word su accordature di ottoni e free form ubriaco. Urbano, solitario, scosso da una percussione tribale che fa dei tubes dell’underground cassa di risonanza per lontananze equatoriali i cui cieli possono forse aiutare a guarire da un mal d’amore, che, quando è profondo, sembra poterti uccidere. Tra sperimentazione e confusione, ecco Little Bubble, una serenata per un combo doo-woop anni ‘50 capitato per caso tra sintetizzatori, sequencer e drum machine; ritmi e feeling da nerissimo R’n’B in Winner Take Nothing; poliritmi e “great black music” in Up In Hudson. Poi chill-out disparato, vocoder sparso, nessuna chitarra acustica, lounge music con ambizione di sofisticazioni art-pop che, almeno a un primo ascolto, paiono molto la facciata di un album genialoide di cui magari riconosceremo il valore tra una decina d’anni. Ben prodotto, meticolosamente assemblato. Poco altro.

Voto: 5/10
Giovanni Capponcelli

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