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19 Ottobre 2012 , ,

Matthew E. White BIG INNER

2012 - Spacebomb Records/Hometapes
[Uscita: 21/08/2012]

Matthew E. White – Big Inner# Consigliato da DISTORSIONI

 

Potrei iniziare e finire la recensione elencando le influenze più marcate che si avvertono in questo (favoloso, meglio dirlo subito) esordio di Matthew E. White. Rischierei però di sminuirne il grande valore, riducendone le notevoli qualità a meri esercizi di stile. Il disco di questo ragazzone della Virginia somigliante tanto a Rick Rubin quanto al Bob Seger giovane, è composto di sole sette tracce ma tutte di durata medio-lunga, con il record dei quasi dieci minuti realizzato dalla conclusiva Brazos. Occhio perché qui di carne al fuoco ce n’è davvero parecchia e il disco necessita di numerosi ascolti affinché sveli tutti i suoi segreti; di questi tempi trovarne uno che non sveli tutto subito ma piuttosto si lasci assaporare un po’ per volta è cosa rara. Che ci si trovi al cospetto di roba potente lo si intuisce immediatamente: One Of These Days è il biglietto da visita. Una canzone molto soulful, sorretta da un elegante tappeto d’archi bordato da bellissimi ottoni, ha una melodia che quando si apre nella sua solennità, richiama quei capolavori che sono Little Fat Baby di Sparklehorse e la stupenda Lost In The Light di Afie Jurvanen, aka Bahamas, di cui vi parlai qualche mese addietro.

 

 

La seguente Big Love dopo un breve intro di stampo quasi free diventa una ritmatissima cavalcata giocata su pianoforte e percussioni, frastagliata da chitarre elettriche e cori sullo sfondo: è un labirinto di richiami e influenze dentro cui è facile perdersi. A me ha ricordato i TV On The Radio privi dell’ apporto dell’elettronica, ma ripetendo gli ascolti non si fatica a cogliere elementi cari al Veloso più tropicalista e non è nemmeno difficile scorgervi tracce di Funkadelic e dei Talking Heads più africani. Avete capito bene, c’è di tutto e tutto quel che vi trovate è roba da leccarsi i baffi. Il terzo brano è un crescendo giocato su una melodia ultra-famosa. Scommetto che impazzirete un bel po’ a risalirne al titolo ma vi do un suggerimento: andate a rovistare nei cori da stadio degli anni ’70.

 

Il disco scorre alla grande fino alla fine e troverete alcuni arrangiamenti che rimandano sia a certi spunti della negritudine di Isaac Hayes che a certe cose in ambito più folk (per esempio gli archi come li aveva usati Bill Fay. Altre parti (Hot Toddies) richiamano Allen Touissaint e Dr. John ed è davvero un gran bel sentire. Il sigillo lo mette la lunga e suggestiva Brazos che inizia zuccherina, malinconica e bacharachiana ma termina in un vorticoso mantra giocato su archi, voci gospel e ritmica reiterata alla Spiritualized. Nelle note a corredo si legge che una grossa fetta di ispirazione è stato il Randy Newman di “Good Old Boys” e “Sail Away”: io trovo che l’accostamento vada fatto, per l’approccio in totale libertà espressiva, se posso osare e se non mi sbilancio troppo, con "Astral Weeks". Per scalzarlo dalla mia top-ten di fine anno ci vorrà un miracolo. Fidatevi.  

 

Roberto Remondino

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