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12 Settembre 2013

The Bling Ring Sofia Coppola

2013 - USA

The-Bling-Ring-cannesTratto da una storia vera ed ispirato da un’inchiesta di Vanity Fair, “The Bling Ring”, ultimo film di Sofia Coppola, offre uno sguardo su una realtà che, solo se guardato con superficialità, può essere inteso come una semplice incursione nel mondo del glamour e della bella vita hollywoodiana. Il film mette in scena la vicenda di un gruppo di ragazzi della Hollywood bene (come in quei vecchi film italiani: “I ragazzi della Hollywood bene”) che si introducono nelle ville delle star del cinema e della televisione, da Paris Hilton a Orlando Bloom e Lindsay Lohan, per derubarle, per assaporare un minimo di quella vita, per sovrapporre le loro esistenze – sia pur agiate e prive di qualsiasi difficoltà – con quelle delle celebrità. Il paragone con “Spring Breakers” di Harmony Korine viene quasi automatico, ma andando a scavare più a fondo le differenze emergono, e sostanziali. È vero che i due film condividono l’assunto di base, la profonda sfiducia verso le nuove generazione (di due registi ancora essi stessi “giovani”), l’indagine sul vuoto della società dello spettacolo 2.0, ma le due storie approdano a conclusioni, e soprattutto a due messe in scena totalmente differenti, laddove Korine offriva uno spaccato generazionale (possiamo dire sociologico) visto totalmente dall’interno, in cui il primo livello di lettura era assolutamente parificato a quello dei protagonisti (da qui la riuscita e ammiccante ambiguità di fondo del film, suo punto di forza), lo sguardo di Sofia Coppola è più distaccato, freddo, privo della sensualità che riempiva ogni inquadratura del film di Korine (non fatevi ingannare dai ralenti).

 

the-bling-ring.Pur non essendoci moralismo, l’occhio di Sofia Coppola cerca la morale del vuoto, nonostante il glamour, nonostante la raffinatezza delle immagini che a volte sembrano compiacersi del mondo dorato che riproducono, e potrebbero far pensare ad una certa connivenza tra un mondo e un modo di fare cinema glamour e modaiolo. Ma anche in questo caso si tratta di un’impressione superficiale, non c’è bellezza né raffinatezza, non c’è nulla: questo niente si osserva da sé, inserito nel suo contesto, ripreso così come (sembra) essere. La regista sceglie giustamente uno stile semi-documentaristico (e le case svaligiate sono le vere abitazioni delle star), come se cercasse una risposta neorealista all’eccesso di iperrealismo della contemporaneità (tutto nel film è ripreso, condiviso, fotografato: e qui il film diventa teorico, e si chiede, in fondo, dove va il cinema); ancor di più, il suo sguardo sfiora il naturalismo classico nel suo voler indagare una vicenda attraverso i canoni classici dell’indagine verista (e, incredibilmente, riesce a farli funzionare nel cinema odierno).

 

Sì, perché le basi dell’analisi del film sono, a guardar bene, quei vecchi canoni teorizzati da Hippolyte Taine, quando affermava che la realtà va colta non solo fotografando il momento (il momento “storico”, l’evento personale, la vicenda privata e particolare), ma anche, portando il discorso gradualmente dal particolare al generale, l’ambiente (milieu) in cui la vicenda si svolge e da cui questa è condizionata (rappresentato egregiamente dalla madre del personaggio interpretato da Emma Watson) e ancor di più le tare psichiche collettive (di quella che Taine chiamava race) che sono il motore primo degli eventi particolari. La macchina da presa di Sofia Coppola guarda tutto, a volte manifestando in pieno la propria presenza, certe altre nascondendosi dietro i video di sorveglianza, le immagini di repertorio, le riprese televisive o i collage di foto; ma tutto resta volutamente freddo e asettico, non c’è più spazio per nient’altro.

 

Laddove dunque Harmony Korine si salvava (e ci salvava, in parte almeno) con un ampio ricorso alla sensualità (del corpo, della carne mostrata e ostentata), la visione di Sofia Coppola non lascia molto spazio alla speranza e al futuro (da qui il discorso morale); fotografando un ambiente ne constata la sua decadenza che non tanto lentamente si trasforma in vera e propria marcescenza, senza riscatto e incasellata in un eterno ripetersi e autofagocitarsi (l’ultima, amarissima, sequenza), portando alle estreme conseguenze il discorso iniziato con “Somewhere”. Quello che ne viene fuori è un mondobling-ring privo di via di scampo, superstizioso e neopagano, incline a trovare una via d’uscita nella “mitologia” sia essa quella delle star del cinema o quella di “The Secret”, distaccato sempre più da una realtà che (e il cinema contemporaneo ce lo sta insegnando in questi ultimi anni: da “Cosmopolis” a “Reality”) sia ormai definitivamente morta. E se qualche critico con toga e parrucca verrà a dirvi che è un film vuoto e senza senso (come ci/vi avevano detto di Spring Breakers), non statelo a sentire, perché il vuoto certe volte spiega il reale molto meglio di mediocri contenitori pieni zeppi di belle quanto banali parole e idee riciclate.

 

Luca Verrelli

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