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20 Luglio 2012

Take Shelter Jeff Nichols

2011 - USA

take-shelterViene finalmente distribuito in Italia, con un anno di ritardo, "Take Shelter", opera seconda del regista statunitense Jeff Nichols, giovane cineasta (classe 1972) di grande talento visivo e narrativo (presente a Cannes 2012 con il suo ultimo film "Mud"), in cui la desolante reinterpretazione del “gotico americano” (splendidamente resa anche nel suo film d’esordio, inedito da noi, "Shotgun Stories") diventa cornice per una storia di ossessione e di paura. La rappresentazione della fine, del suo annuncio o del suo presentimento è al centro di Take Shelter: un buon padre di famiglia (Michael Shannon, che dopo "My son my son what have ye done?" di Herzog torna ad interpretare lucidamente la follia), lavoratore onesto, amato da moglie, figlia ed amici, inizia ad avere strani presentimenti di una imminente catastrofe, di cui non riesce ad interpretare i lineamenti precisi, ma di cui percepisce la straordinaria forza distruttiva. Forse un uragano, forse qualcosa di molto peggio. Sogni? Allucinazioni? Eredità della schizofrenia materna?

 

Incapace a darsi (e a dare) una spiegazione di queste visioni apocalittiche (flagelli biblici venati di cultura moderna, come un’inquietante pioggia oleosa, ma anche segnali apocalittici più classici, e cinematografici, come gli hitchcockiani uccelli impazziti) la sua vita ne esce sconvolta, e l’unico scopo della sua esistenza diventa la costruzione di un rifugio con cui proteggere la famiglia dall’imminente catastrofe che solo la sua mente pare presagire. Le atmosfere faulkneriane e steinbeckiane, da profondo Sud, tipiche del regista, aggiungono all’irruzione del “sovrannaturale” una pesante e dura rappresentazione della provincia americana (ben resa anche attraverso una regia cristallina, attenta ai dettagli,take shelter film che ha ben presente il cinema americano classico, ma guarda anche a Eastwood e al Malick di "Days of Heaven"). Il mondo in cui agiscono i personaggi è lontano dai fasti e dalle luci della metropoli e allo stesso tempo è altrettanto distante dalla presentazione stereotipata della provincia americana; quella provincia che – al pari della grande città – ha goduto e gode di un grande successo cinematografico, e che possiede innegabilmente un’aura simbolica molto forte.

 

La provincia di Jeff Nichols è differente da questa visione ormai consueta cui certo cinema americano (o “americanizzante”, si veda "This must be the place" di Paolo Sorrentino) ci ha abituato.  La messa in scena propone una classe lavoratrice sempre più incerta sul proprio futuro,  in cui il lavoro non è più una garanzia di sostentamento e di “protezione” (shelter) per il nucleo familiare. La rappresentazione della vita di provincia è calata dentro un discorso metaforico – pur non perdendo mai i legami con una realtà raccontata senza fronzoli – sulla paura stessa, sul presentimento, impalpabile, della fine. Le consuetudini familiari (rappresentazione dell’economia classica, in fondo), le piccole quotidianità di una famiglia che un tempo si sarebbe chiamata proletaria (i soldi faticosamente messi da parte per potersi permettere una vacanza, la moglie casalinga – Jessica Chastain, bellissima –  che arrotonda vendendo lavori all’uncinetto) vengono sconvolte dalla pre-coscienza (individuale) della fine, dalla fine di un sistema economico che, conseguentemente, diventa fine di un sistema di valori su cui un certo tipo di società poggiava le sue stesse basi. La lotta di un uomo piccolo contro qualcosa di straordinariamente grande, pericoloso e, in ultima analisi, sconosciuto, diventa la metafora perfetta di un mondo in via di sparizione, una metafora amara sui nostri tempi.

 

take_shelterRappresentando la fine della normalità familiare, scardinata a causa di un’ossessione che sembra coinvolgere un singolo uomo che si trova ad impersonare una contemporanea Cassandra, il film descrive, con tratti da horror, la paura della fine della normalità stessa, un’apocalisse quotidiana dai contorni intangibili che viene dall’esterno e sembra essere incontrollabile e soprattutto ingestibile. La fine è quella di un mondo forse squallido e neanche lontanamente rapportabile ad una qualsiasi idea di perfezione (quello di Nichols è un cinema che si nutre di desolazione, sia essa paesaggistica o personale), da cui non si esce a meno che non venga spazzato via da una catastrofe, cioè da un elemento non richiesto e non compreso. Nichols offre una lettura alternativa di un tema che in fondo è lo stesso di "Melancholia" di Lars Von Trier: la sceneggiatura àncora la vicenda alla realtà cruda, e lo fa grazie ad uno script che ha una solidità neanche paragonabile all’abbozzo mal riuscito del film del regista danese. Nichols riesce a fare un horror politico parlando per metafore, arrivando alle stesse conclusioni di un Romero (maestro di “rifugi” cinematografici), lasciando però tutto l’orrore nella psiche del personaggio.  La paura è analizzata (ma non psicoanalizzata) e trasportata su un piano inedito: non più la paura dell’altro dell’America post 9/11 (come accadeva, ad esempio, nel sottovalutato, ma fondamentale se letto sotto quest’ottica, "The Village"), ma la paura di una catastrofe globale e condivisa che coinvolge allo stesso tempo noi e gli altri.

 

Luca Verrelli

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