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2 Dicembre 2013

Speciale Torino Film Festival: “Tarr Béla. I used to be a filmmaker” Jean-Marc Lamoure

2013 - Francia - Cast: Béla Tarr, Agnes Hranitzky, Mihály Vig, Erika Bok. Durata: 88 min.

 

"Tarr Béla. I used to be a Filmmaker" – presentato in anteprima al Torino Film Festival – è un documentario che segue la lavorazione dell'ultimo film del regista ungherese, "Il cavallo di Torino". Ultimo film del regista non (solo) in senso cronologico, ma anche in assoluto. Sì perché Béla Tarr ha deciso di non fare più film, e quest'ultima, disperata, pellicola del 2010 è stata necessariamente il suo testamento (e forse il suo capolavoro). E ci scherza Béla Tarr su questo fatto, quando per girare una sequenza del film è costretto a sotterrare la macchina da presa per ottenere una migliore inquadratura. Il momento di scavo e di inumazione della macchina diventano un funerale laico, una sepoltura simbolica del suo cinema, e forse di tutto il cinema. Allegoricamente il cinema di Béla Tarr trova la propria tomba in quella pianura ungherese che lo aveva fatto grande, s'incastra in quel paesaggio che il bianco e nero rendeva malinconico, freddo e latore di oscuri presagi; quel paesaggio che è, in fondo, personaggio principale di tutto il suo cinema, luogo in cui gli individui si muovono, spesso persi, spesso in viaggio alla ricerca d’un utopico riscatto che mai ci sarà.

 

Il documentario di Jean-Marc Lamoure segue molte fasi della lavorazione del film, ci porta dietro le quinte mostrandoci il modo di lavorare della troupe e del regista. La preparazione delle scene e dei lunghi piano-sequenza che hanno reso famoso il regista ungherese è documentata fin dalla loro preparazione preliminare: lo studio attentissimo dell’inquadratura, le prove, i movimenti della macchina e degli attori preparati con perizia. Il documentario ci mostra così un dietro le quinte allo stesso tempo umano e cinematografico; ci mostra come sono state realizzate alcune delle sequenze più belle de "Il cavallo di Torino”, come ad esempio il piano-sequenza iniziale, con la macchina da presa montata su un camion che segue la corsa del cavallo: grazie al backstage scopriamo che l’effetto-vento (quel vento che in tutto il film preannuncia la fine di tutto) è stato realizzato grazie ad un elicottero che volava poco sopra il set e sconvolgeva il paesaggio con le sue pale in azione.

 

Ma il film documenta anche altro: non solo, dunque, il metodo di lavoro di Béla Tarr e dei suoi, ma anche i rapporti umani che nascono durante la lavorazione del film. Una gestione del set quasi "familiare", e non solo perché con lui lavora la compagna d’una vita (professionale e privata), Agnes Hranitzky, che di fatto è coautrice e coregista di tutti i suoi film, ma perché tutte le persone della piccola troupe fanno parte di una famiglia cinematografica i cui effetti sconfinano al di là del cinema stesso. Troviamo così il compositore e attore Mihály Vig, autore delle musiche dei suoi film maggiori e attore in "Sátántangó", ripreso nel suo appartamento in un caseggiato popolare, che riflette sull’importanza (e l’inesistenza) del silenzio. La sua musica è una presenza costante anche durante le riprese del film (ma c’è anche un piccolo momento di "folklore", durante le immagini che mostrano la costruzione del set con gli operai che ascoltano "Kalimba de Luna" di Tony Esposito, nella versione dei Boney M). L’attore János Derzsi, compagno d’arte di lunghissima data del regista (la prima presenza nel "Macbeth" televisivo dei primi anni Ottanta), e che ne "Il cavallo di Torino" trova il ruolo di una vita, scherza con l’amico, ma in un momento di riflessione offre una lettura profondissima della sua opera. Assistiamo, poi, ad una commossa confidenza dell’attrice Erika Bok, scoperta dal regista in un orfanotrofio durante il casting di "Sátántangó" e da allora sempre presente nei film di Béla Tarr, verso il quale la ragazza prova un affetto quasi (o forse più che) paterno.

Cinematograficamente parlando il documentario è assai convenzionale; è più che altro un prodotto per i fan del regista, che già conoscono la sua opera e i suoi film, ma resta un omaggio sincero ad uno dei filmmaker più grandi della cinematografia degli ultimi trent’anni, il cui ritiro (con un film come "ll cavallo di Torino”), se da un lato lascia l’amaro in bocca agli estimatori della sua opera, dall’altro non fa che confermare l’estremo rigore (si potrebbe dire quasi morale) di un artista che sa di aver lasciato alla storia del cinema un’imponente eredità.

Luca Verrelli

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