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15 Aprile 2015

Speciale Alfred Hitchcock. Parte Terza: dai grandi capolavori al declino (1950-1976)


Grazie ad un contratto con la Paramount, in base al quale diventava anche produttore di cinque film, Hitchcock ottenne le sue maggiori soddisfazioni economiche e artistiche, in concomitanza alla “riabilitazione” della sua figura attuata dai critici francesi. Il nuovo esordio è folgorante: Rear window - La Finestra sul cortile (1954), uno dei capisaldi della carriera hitchcockiana nonché un capolavoro immortale della storia del cinema. Nei primissimi minuti del film l’autore ci fa comprendere “dove siamo” grazie ai movimenti della macchina da presa che ci introduce in un appartamento e quindi uscendo dalla finestra ci conduce con una rapida panoramica sul cortile e sulle sue abitazioni con, in profondità di campo, uno spicchio di strada affollata; poi la macchina da presa torna sul volto di un uomo immobilizzato sulla cui gamba ingessata è scritto un nome: L.B. Jeffries (James Stewart), si sofferma sulla foto di un incidente d’auto alla parete e, infine, si posa su alcune riviste fotografiche. Così, in soli quattro minuti, lo spettatore conosce tutto del protagonista e a breve scoprirà anche che egli è un indomabile “guardone”, come lo apostrofa con disprezzo la sua governante. Il film, oltre a confermare il talento registico del regista, è un’opera sul cinema stesso: le tante finestre che si aprono sono tanti mondi possibili (la single, la ballerina, i neosposi, un presunto assassino ecc.) che noi spettatori osserviamo attraverso gli occhi e il binocolo di un guardone, Jeff (il film è girato quasi completamente in soggettiva), che ci rende tutti partecipi e guardoni a nostra volta.

 

La finestra sul cortile contiene, inoltre, uno dei baci più sofisticati, sensuali ed erotici della storia del cinema: è sera e Jeff dorme sulla sua sedia a rotelle quando entra Lisa (una meravigliosa Grace Kelly) che guarda Jeff, quindi noi spettatori, e lo bacia mentre i movimenti dei volti vengono leggermente rallentati da una impercettibile sovrapposizione delle immagini. Jeff conduce Lisa e la governante dentro le sue ossessioni alla ricerca dell’assassino della finestra di fronte: ma è realmente colpevole o sono tutte congetture architettate dalla mente del protagonista? Lo spazio fisico limitato dell’uomo è una metafora sia del cortile, quindi, del mondo, che della paura del matrimonio: Jeff è continuamente titubante alle allusioni di Lisa e alle pressioni più esplicite della governante su un eventuale futuro coniugale tra i due. Dal 1954 al 1963 Alfred Hitchcock realizza una serie impressionante, per qualità e quantità, di 9 pellicole: La finestra sul cortile, Caccia al ladro, La congiura degli innocenti, L’uomo che sapeva troppo, Il ladro, La donna che visse due volte, Intrigo internazionale, Psycho e Gli uccelli. Dopo le variazioni sul tema di Caccia al ladro (1955), una deliziosa commedia con i “soliti” Cary Grant e Grace Kelly contenente una bellissima allusione sessuale quando i fuochi d’artificio fanno seguito ad un prolungato bacio sul divano tra i due, e La congiura degli innocenti (1955), bellissima storia intrisa di humor nero girato nel Vermount illuminata dalla splendida fotografia del fidato Robert Burks. L’ormai conclamato maestro nel 1956 riadatta alla sua maniera un vecchio film del periodo inglese, L’uomo che sapeva troppo. Il film è celebre soprattutto per la straordinaria sequenza di dieci minuti girati all’Albert Hall di Londra quando, mentre Bernard Hermann dirige un concerto, il rapporto tra musica, montaggio e suspense raggiunge il climax durante il battito dei piatti coincidente con lo sparo dell’assassino sul ministro; il colpo verrà “deviato” dall’urlo disperato di Jo (Doris Day). In realtà è il musicista che “consente” lo sparo anche se a sua insaputa, mentre lo spettatore sa tutto, vede la mano della pistola che sta per sparare, ed è quindi vittima potenziale ed assassino al tempo stesso. Doris Day rese celebre proprio in quel film il suo brano Que sera sera che farà da sottofondo ad una scena carica di tensione. Da segnalare, inoltre, un aneddoto biografico: la goffaggine di Ben (James Stewart) nel sedersi al ristorante di Marrakech, nella prima parte della pellicola, è una citazione di un episodio simile realmente accaduto al regista. Hitchcock durante questi anni rinuncia sempre più al sonoro e torna a “far parlare” la macchina da presa quasi si volesse affidare al solo potere delle immagini: possiamo riscontrare lunghe sequenze mute, sublimate dalla musica di Bernard Herrmann, da La Finestra sul Cortile a Gli Uccelli, passando per il sopracitato L’uomo che sapeva troppo, La donna che visse due volte, Intrigo internazionale e Psycho. E’ anche il periodo in cui Hitchcock, per creare un set sempre più dinamico ed affiatato, si circonda il più possibile degli stessi attori e collaboratori: gli attori James Stewart (La finestra sul cortile, L’Uomo che sapeva troppo e La donna che visse due volte), Cary Grant (Caccia al ladro e Intrigo internazionale) e Grace Kelly (Il delitto perfetto, Caccia al ladro e La finestra sul cortile); il compositore Bernard Herrmann (da La congiura degli innocenti a Marnie); il direttore della fotografia Robert Burks (dal 1951 con Delitto per delitto ininterrottamente fino a Marnie) e il montatore George Tomasini (da La finestra sul cortile a Marnie).

 

Vertigo-La donna che visse due volte (1958) contiene i titoli di testa più belli dell’intera filmografia del regista londinese: essi scorrono su un volto femminile, passando dalla bocca agli occhi per poi trasformarsi, nella pupilla, in vertigini animate (realizzate da Saul Bass). In questo surreale viaggio nell’inconscio (che secondo la “British Film Institute” dal 2012 ha scalzato Quarto Potere di Orson Welles conquistando il titolo di film più bello di tutti i tempi”) riaffiorano ancora psicanalisi e surrealismo nello strepitoso sogno animato di Scottie (James Stewart); sogno e realtà sono indistinguibili, le immagini astratte rappresentano una visione distorta del reale, la raffinatezza della regia raggiunge il suo apice con alcuni momenti memorabili: lo sguardo smarrito e perso di Scottie aggrappato al tetto, il tuffo di Madeleine (Kim Novak) nella baia di San Francisco, la scena carica d’erotismo della Novak in accappatoio, la lunga sequenza muta sottolineata da un motivo “spagnoleggiante” che accompagna “Scottie” nel suo pedinamento di Madeleine intenta a contemplare un dipinto che ritrae Carlotta Valdes, l’ossessione del protagonista nel “riportare” in vita Madeleine plasmando una sua sosia (?) a sua immagine e somiglianza; poi il finale, angosciante e bellissimo, tetro e cupo, fastidioso e pauroso, minaccioso e malinconico sulle scale del campanile della chiesa dove Scottie vince la fobia delle vertigini e vede la “sua” donna cadere di nuovo sotto l’agghiacciante sguardo di una suora mostruosa. Se Vertigo rappresenta il surreale, l’oscuro e l’indefinito, Intrigo Internazionale (1959) è luminoso, spettacolare e ironico; uno spy movie perfetto dal ritmo serrato, forse il più godibile film hitchcockiano di sempre, impareggiabile mix tra immagini e narrazione (sarà fonte d’ispirazione per tutta la serie degli 007) con una trama assolutamente inverosimile: il protagonista George Caplan, per il quale viene scambiato Roger Thornhill (Cary Grant), l’ennesimo innocente in fuga, non esiste, e il suo girovagare per i luoghi simbolo degli Stati Uniti (dal palazzo dell’ONU a New York al monte Rushmore) è solo un pretesto utilizzato dal Maestro inglese per ricodificare il linguaggio cinematografico giocando col pubblico e riplasmando i generi.

 

Da antologia la sequenza (muta) girata nel deserto: un aereo cerca di uccidere Caplan/Thorhnill, in attesa di un fantomatico autobus, costringendolo a nascondersi dentro una piantagione di mais; lo spazio aperto è claustrofobico e senza apparente via d’uscita esattamente come una stanza. Da segnalare, anche in questo film, l’esplicito riferimento al sesso durante il meraviglioso dialogo sul treno tra Caplan/Thorhnill ed Eve Kendall (Eva Marie-Saint). Riferimento sublimato nel finale quando, dopo l’avvincente scena sul monte Rushmore, Hitchcock beffa genialmente la censura simulando addirittura l’atto sessuale tra i due innamorati: nuovamente insieme in un vagone letto, Roger abbraccia Eve e, mentre scorrono i titoli di coda, il treno si infila nel tunnel. A fine anni cinquanta Alfred Hitchcock è un autore affermato e appagato che intraprende un nuovo pionieristico percorso professionale: produce una serie televisiva, “Alfred Hitchcock presents”, contenente venti episodi da lui diretti (il primo episodio trasmesso dalla 1955, l’ultimo nel 1962). Per merito della sua silhouette, accompagnata dalla celebre musichetta, che irrompe sul piccolo schermo ad introdurre gli episodi, raggiunge una popolarità enorme in America e poi nel resto del mondo; grazie a questo nuovo incarico il regista sosteneva ironicamente di poter “ricondurre l’omicidio nella casa, il suo luogo d’appartenenza”.

 

Dopo il grande sforzo produttivo di Intrigo Internazionale Sir Alfred rimane affascinato da un piccolo romanzo di Robert Bloch, Psycho, e vuole farne un film; ma non trovando nessuno disposto a finanziare la storia di uno psicopatico affetto dal complesso di edipo, decide di autoprodursi e con un budget di soli 800mila dollari realizza in bianco e nero Psycho (1960): sarà il più grande successo commerciale della sua carriera e forse, attualmente, il suo film più famoso. Marion Crane (Janet Leigh), dopo aver rubato 40.000 dollari, raggiunge il Bates Motel gestito da Norman Bates (Anthony Perkins) che vive in compagnia di sua madre; mentre fa la doccia, in una scena di inaudita violenza, Marion viene uccisa freddamente, senza preavviso, in un forte contrasto tra bianco e nero; l’unico effetto che fa da presagio al delitto è rappresentato dai violini striduli e distorti mirabilmente orchestrati da Bernard Hermann. Dopo soli 40 minuti muore la protagonista principale (gesto rivoluzionario nel cinema classico hollywoodiano, consigliato all’autore dalla moglie Alma) e lo spettatore perde ogni sicurezza non potendo più identificarsi con nessun personaggio (l’eroe classico del cinema americano viene letteralmente fatto a pezzi) ed è in balia dei paurosi eventi. Lo psicopatico, che nel libro era calvo e grassoccio, nella trasposizione hitchcockiana assume le sembianze di un giovane affascinante (anche se il povero Perkins rimase prigioniero di quel ruolo per tutto il resto della sua carriera) succube di una madre iperprotettiva. Hitchcock sottopone al pubblico un nuovo codice interpretativo e, dopo aver costruito nella sua opera una tela ossessiva impiantata sul tema del complesso di colpa, del peccato, della sessualità e del doppio, in Psycho rimuove addirittura la figura materna raffigurando temi inopinati come il complesso di Edipo; mai nessuno fino ad allora aveva nemmeno lontanamente pensato di osare tanto sul grande schermo. Psycho è l’ultimo film in carriera del quale il regista inglese fosse completamente soddisfatto.

 

Tuttavia nel 1963 realizza Gli Uccelli, il suo ultimo grande capolavoro, che può essere considerato il seguito della pellicola precedente: ancora una volta una madre iperprotettiva (la madre di Mitch Brenner, Rod Taylor) e ostile alla possibile amante del figlio (Melanie Daniels, Tippy Hedren). Nuovamente vengono rovesciati i codici classici e la dicotomia buono/cattivo alla base del cinema hollywoodiano; il maestro del brivido, infatti, dopo aver in un colpo solo distrutto l’eroe e la figura materna, compie un ulteriore passo in avanti inserendo nel suo mosaico l’ostilità di madre natura, rappresentata dagli aggressivi volatili (i quali incombono minacciosi già dai titoli iniziali), nei confronti dell’inadeguato genere umano. Gli Uccelli è l’unica pellicola di Alfred Hitchcock priva di una colonna sonora di tipo tradizionale: Bernard Herrmann, Remi Gassman e Oskar Sala idearono artificialmente con uno strumento elettronico i rumori degli uccelli. Allo stesso tempo il film è privo, al pari di Psycho e La donna che visse due volte, del tradizionale happy end consolatorio; nel plumbeo finale, quando la strada invasa dagli uccelli viene lentamente percorsa dalla macchina dei protagonisti è assente persino la scritta “the end”.  Dopo la realizzazione de Gli uccelli inizia la parabola discendente del grande regista inglese: dal 1964 al 1976 girerà altri cinque film ma nessun nuovo capolavoro. Tra i motivi principali del declino si possono indicare: il venir meno per svariati motivi dei suoi attori di riferimento (Cary Grant, James Stewart e Grace Kelly), la fine delle collaborazioni col montatore George Tomasini e con Bernard Herrmann e la morte del grande direttore della fotografia Robert Burks. Così, dopo aver toccato tutte le corde del proprio repertorio, Hitchcock non può far altro che rimescolare il suo mondo cinematografico.

 

Tuttavia alcuni guizzi d’autore sono ancora riscontrabili in Marnie (1964) quando Marnie Edgar (Tippi Hedren), in una scena carica di tensione, lascia l’ufficio a seguito di un furto togliendosi le scarpe per non insospettire la donna delle pulizie; ne Il sipario strappato (1966) durante il crudo assassinio col gas compiuto da Michael Armstrong (Paul Newman). Se Topaz (1969) è uno dei suoi film peggiori, il ritorno nella sua Londra regala a Sir Alfred Hitchcock l’ultimo successo di pubblico della sua carriera: Frenzy (1972). In quest’opera ambientata nel mercato ortofrutticolo di Covent Garden il regista riesplora i suoi temi di sempre: l’innocente ingiustamente accusato, il serial killer di donne sole e la violenza omicida (notevole la scena girata sul camion di patate dove l’assassino cerca il fermacravatte rimasto impigliato tra le dita di una sua vittima). Complotto di famiglia (1976) è l’ultima fatica di un uomo che aveva dedicato la sua vita al cinema realizzando la bellezza di 53 film in 51 anni, oltre a 20 splendidi episodi televisivi e a qualche cortometraggio. Il 29 aprile 1980 il vecchio regista muore nella sua casa di Los Angeles. Se ne andava, citando nuovamente Chabrol e Rohmer, “Uno dei più grandi inventori di forme di tutta la storia del cinema”, al pari solamente di “Murnau e Ejzenstejn” (guarda caso due tra i punti di riferimento del giovane Hitchcock). Un uomo etichettato “Maestro del brivido” ma capace, come abbiamo visto, di andare ben oltre questa seppur esatta definizione. Uno dei pochi entrati nell’ingranaggio produttivo hollywoodiano riusciti ad uscirne indenni potendo contare, 35 anni dopo la sua morte, su una fama planetaria, su una miriade di immagini sublimi appartenuti a film ancora oggi e forse più di ieri amati e studiati da chiunque si cimenti con il cinema. Si è realizzato per Hitchcock quello che egli stesso aveva intuito fin dagli anni venti: “Nella mente del pubblico il nome del regista dovrebbe essere associato all’idea di un prodotto di qualità. Gli attori vanno e vengono, mentre il nome del regista dovrebbe rimanere impresso a chiare lettere nella mente degli spettatori”.

Gaetano Ricci

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