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9 Marzo 2012

Shame Steve McQueen

Gran Bretagna, 2011- Interpreti: Michael Fassbender, Carey Mulligan, James Badge Dale, Nicole Beharie. Durata 99 min. Uscita italiana 13 gennaio 2012

Shame

 

Non è facile parlare di ossessioni, specie al cinema, senza correre il rischio di finire nel didascalico o, peggio, nella macchietta. "Shame", l’ultimo film di Steve McQueen, pur nella sua imperfezione è uno di quei film che riesce a trasmettere allo spettatore il disagio di un’ossessione vissuta nell’intimo della personalità, tenuta nascosta (non sempre bene)  ma pur sempre viscerale. Shame prende il via da un tormento, da una ricorrente idea fissa, idea coatta che logora l’animo del protagonista. La vita di Brandon è scissa tra un’apparentemente normalità (buon lavoro, bella casa, bei vestiti) e una ricerca spasmodica quanto totalmente spersonalizzata (se non meccanica) del piacere sessuale, di un piacere totalmente fisico che diventa vera e propria dipendenza (se non schiavitù), ricerca del sesso in tutte le sue forme possibili, reali e virtuali, on-line e off-line. Un lato oscuro incontrollato che scandisce i ritmi della vita del protagonista, a casa, in ufficio, nel tempo libero. 

 

La solitudine del protagonista si alimenta di sesso, vissuto non come ricerca dell’altro, della relazione, ma come sfogo di una turba recondita, nascosta sotto il velo di una vita apparentemente comune. L’irruzione nella vita del protagonista della sorella verrà a turbare questo precario equilibrio. Un’incursione, quella di Sissy, che ha tutta l’aria di un tragico ritorno, destinata a sconvolgere un mondo squallidamente perfetto, e che racchiude in sé tutte le premesse della tragedia. È un film fatto di primi e primissimi piani Shame, inquadrature strettissime che frammentano i corpi, quei corpi che, mettendo in scena un soggetto del genere, ci si immaginerebbe di trovare se non esaltati, quanto meno mostrati ed esposti con compiacimento. Niente di tutto questo: le immagini anche quando sono esplicite (e lo sono molto spesso) si rarefanno sotto i tagli delle inquadrature, che stringono sempre di più non a cercare il dettaglio che verifichi l’effettiva realtà delle cose, l’effettiva consistenza dei corpi; bensì, al contrario, l’immagine stretta cerca di penetrare all’interno del personaggio stesso, anzi, all’interno della persona nell’atto della sua spersonalizzazione.

 

Shame è un film che usa il primo piano in un senso quasi “deleuziano”, che sembra mettere in pratica le intuizioni di Gilles Deleuze, quando scriveva che 'il volto primo-piano non agisce né attraverso l’individualità di un ruolo o di un carattere, né attraverso la personalità dell’attore'. Parlando di sesso spersonalizzato, o ancor peggio virtuale, il regista con la sua scelta invasiva, tenta di cercare la personalità, gli affetti, le sensazioni, attraverso una tecnica che di per sé, e paradossalmente, è spersonalizzante (il primo piano del volto inteso come rappresentazione dello “svoltamento”, l’assunzione di un carattere che supera il volto stesso, e la figura attoriale, per diventare emozione pura); la macchina scava e si insinua all’interno di quel contenitore-corpo, apparentemente privo di anima, ma che nasconde in realtà chissà quale non svelato segreto. Strano a dirsi ma Shame non è un film sui corpi, è una pellicola priva di qualsiasi compiacimento voyeuristico (anche davanti al nudo integrale di Michael Fassbender, o a scene di sesso esplicite), in cui l’ossessione sessuale è un fatto prima di tutto mentale, e solo in secondo grado fisico.

 

La vicenda ci mette davanti un disagio (del protagonista, ma anche dello spettatore) che emerge soprattutto nelle scene di sesso, che la splendida interpretazione di Michael Fassbender (premiata con la Coppa Volpi a Venezia), riesce a svuotare completamente dalla componente erotica (e ancora una volta il lavoro sul primo piano è fondamentale), lasciando trasparire umori tutt’altro che sanguigni. I fatti sono rappresentati nel loro svolgimento (anche attraverso lunghe carrellate, o con piani-sequenza immobili) senza scendere nel facile psicologismo (i segreti restano segreti, i misteri rimangono insoluti, le cause prime restano nascoste). Il descensus ad inferos del protagonista è trattato in maniera asciutta (non c’è in lui nulla di eroico né di antieroico), basandosi sui dettagli e sui frammenti, più che su una costruzione narrativa unitaria; non si cercano spiegazioni di sorta, non si cerca (quasi mai) di rassicurare lo spettatore attraverso una semplicistica spiegazione dei fatti. È un film che parla di (non) affetti semplicemente presentandoli nel loro scorrere disturbato, la vita del protagonista è raccontata partendo in medias res, e l’imprevisto (l’arrivo della sorella) sembra essere una reiterazione di una situazione già successa, il ritorno ciclico di ulteriori spettri nella vita di un personaggio che già di per sé è popolata di fantasmi, concreti e virtuali allo stesso tempo.

 

E se il sesso compulsivo pare essere una risposta del protagonista ai fantasmi che lo tormentano, la sceneggiatura non mette un punto d’inizio o un punto di fine alle turbe che lo attanagliano. La costruzione ad anello della storia (che termina esattamente da dove era
iniziata, con un gioco di sguardi nella metropolitana di New York) sembra sottolineare l’impossibilità da parte del soggetto di districarsi dalla palude in cui è sprofondato, l’ennesimo estremo tentativo di ritrovare una tranquillità ormai definitivamente perduta. È soprattutto un film di contrappunti Shame: l’incontro-scontro tra i due protagonisti della storia, che sembrano condividere la stessa tragedia, vivendola però in modi diametralmente opposti. Da un lato Brandon, con la sua vita apparentemente normale, che si rivela essere però una fragile maschera, destinata ad infrangersi non appena la normalità della vita vissuta fa il suo ingresso nella costruzione del protagonista (l’impossibilità di vivere una storia, se non d’amore, di spontanea frequentazione con una donna), portano il personaggio a vivere le sue ossessioni nel lato oscuro della propria personalità, lasciando alla luce solo un simulacro di sé; dall’altro Sissy, figura fragile (a tratti troppo costruita e stereotipata ai limiti della retoricità) che estroflette i propri fantasmi in una vita in cui ogni atto è sintomo del proprio malessere (esplicita nella scena in cui la ragazza, esibendosi come cantante in un locale newyorkese, spettatore il fratello, interpreta una dolente versione di New York New York, rallentata da  una interpretazione che sottintende tutto il proprio spleen).

 

Persa  in una ricerca ossessiva di affetto, in primo luogo da parte del fratello (che è incapace di gestirlo per sé, figurarsi di dimostrarlo agli altri, e che finirà per lasciarla scivolare ancora di più nel proprio tragico buco nero), Sissy incarna il lato tragico della storia, spingendola verso un finale che spinge al massimo il pedale del (forse un po’ prevedibile) melodramma, tentando anche una sorta di conciliazione delle tensioni (trattata in maniera piuttosto facile, a dire il vero) destinata però subito dopo ad essere smentita. Ma è un film di contrappunti anche dal punto di vista formale: l’estrema eleganza della regia, la sua misurata ricerca di un’armonia della forma si scontra con una storia che di armonico non ha nulla (se non una fragile apparenza), rendendo l’effetto ultimo ancora più disturbante.

 

Luca Verrelli

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