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22 Luglio 2012

Quijote Mimmo Paladino

2006-2012 - Italia

quijoteIn una scena chiave del film “Il regista di matrimoni” di Marco Bellocchio, il personaggio interpretato da Gianni Cavina (un regista fallito, che inscenata la propria morte, assiste interdetto al recupero postumo della propria opera) fà un’affermazione che racchiude una sconcertante verità: in Italia comandano i morti. Nel senso che la cultura italiana è bravissima nel far passare inosservate molte opere fino a che il suo autore, o interprete, non passi a miglior vita. Solo dopo la dipartita si scatena l’azione di recupero e di rivalutazione di qualcosa che, alla sua uscita, aveva lasciato tutti (o quasi) indifferenti. La celebrazione post mortem si esplicita in verità molto spesso col recupero dell’ovvio, attraverso l’antologizzazione dell’opera (la grande quantità di ristampe o cofanetti celebrativi, che nulla aggiungono, di solito, alla grandezza di un autore), il cui valore ha più che altro fini commerciali o poco più. Ci sono alcuni casi, però, in cui il recupero postumo riserva per lo spettatore sorprese inaspettate. È il caso del film “Quijote” dell’artista Mimmo Paladino, con protagonista (tra gli altri) Lucio Dalla: film prodotto nel 2006 e passato miseramente inosservato (se non per una proiezione al festival di Venezia), e riesumato solo quest’anno (grazie anche alla benemerita piattaforma on demand Ownair), dopo sei anni e dopo la morte del cantautore emiliano. 

 

Un film sul Don Quijote, dunque; e questo già basta a far drizzare le antenne ai cinefili. Soggetto “maledetto”, non filmabile per antonomasia (seppur non mancano gli adattamenti per il grande e piccolo schermo, a dire il vero), protagonista di due tra i più celebri film “mancati” della storia del cinema, quel “Don Quixote” di Orson Welles, a cui il regista statunitense lavorò per quattordici anni senza riuscire mai a completarlo (fu recuperato da Jusus Franco negli anni Novanta), e soprattutto l’adattamento di Terry Gilliam, altro film mai finito, sulla cui lavorazione “impossibile” è stato realizzato il documentario “Lost in La Mancha”. Paladino tenta l’ardua “impresa” (termine cavalleresco adatto più che mai alla
quijote peppe servillosituazione) e ci consegna (dopo sei anni di limbo) un piccolo gioiello di “cinema d’arte”, in cui convivono un talento visivo inedito e una perizia nell’uso del mezzo cinematografico fusi insieme con l’arte contemporanea e il teatro d’avanguardia (grazie anche all’apporto dei napoletani Teatri Uniti). Le personalità in campo sono di primissimo ordine, e i contributi si vedono tutti. In primo luogo Paladino stesso, che al Don Quijote aveva dedicato un momento importante della propria attività artistica, momento che si era concretizzato in una mostra (di cui questo film, in un primo tempo, doveva essere un complemento visivo) e un libro illustrato.

 

La sceneggiatura del film è scritta dall’artista stesso in collaborazione con Corrado Bologna, filologo e studioso di letteratura tra i più illustri del mondo accademico italiano. Insieme regista e sceneggiatore mettono in piedi un’opera in cui il capolavoro di Cervantes si fonde con mille suggestioni letterarie ed artistiche, che legano il romanzo sull’ultimo dei cavalieri erranti con una serie di spunti che partono dal mito fino ad arrivare a Borges, a Joyce e al cinema di Bergman, passando per il teatro, sia colto e d’avanguardia che popolare (indicativa è la presenza in tal senso, come voce narrante, del cantastorie Mimmo Cuticchio). Una pluralità di spunti che ben rende la complessità dell’epica cavalleresca (di Cervantes e non solo), la sua stratificazione e la sua continua rielaborazione dei modelli, in un lungo scambio tra colto e popolare. Quello di Paladino, dunque, è un Don Quijote che si muove in uno spazio d’avanguardia, costellato da opere di Paladino stesso (di cui vanno almeno ricordati gli splendidi “Dormienti”), ma che è allo stesso tempo arcaico e classico.

 

quijoteDentro questi ambienti si svolge la storia di Don Quijote il folle, la sua estenuante ricerca di un mondo ormai in completo disfacimento, a cui Peppe Servillo, interprete del personaggio, dona una vena malinconica che ben rappresenta lo smarrimento della figura all’interno di un mondo fatto di rovine. Il cavaliere è pervaso da un’immaginazione borgesiana (in riferimento al racconto “La biblioteca di Babele”), vaga in un mondo tutto interiore (ma che si estroflette nelle immagini e nella costruzione degli spazi “mentali” del personaggio), un universo fatto di libri che generano all’infinito altri libri, in un fiume di parole (sottolineato inoltre dai calembour linguistici di Alessandro Bergonzoni e dalla poesia di Edoardo Sanguineti) che è il fiume dell’utopia, e che, in fin dei conti, altro non è che l’altra faccia, e il complemento, della follia “cavalleresca” del cavaliere della Mancha. Ad accompagnare questo Quijote pensieroso e triste c’è un Sancho Panza (Lucio Dalla) dagli attributi rabelaisiani, controparte “corporale” della contemplazione assoluta e libresca del protagonista, pervaso anch’egli da una malinconia, che però, a differenza di quella di Don Quijote, parte dalla terra e dal corpo, dallo sguardo disincantato sulla realtà.

 

Lo scenario in cui i due personaggi operano la loro ricerca (il racconto epico è sempre narrazione infinita di una “Queste”, la ricerca come molla dell’avventura), è assai stilizzato e altamente metaforico (bellissima la scelta di attualizzare i mulini a vento sostituendo ad essi delle enormi pale eoliche), e fa da complemento alle parole dei personaggi: è un mondo fatto di rovine, di costruzioni disastrate, contrappunto visivo (impreziosito da una notevole fotografia nonché da un’abile scelta delle location e da alcune scenografie chedalla quijote paladino ricordano il miglior Jodorowski) della condizione postuma di Don Quijote, in cui la rovina del mondo riflette lo stato di “animale estinto” del cavaliere, e dei valori che quest’ultimo cerca fino alla follia, fino a quell’ultimo dialogo con la morte che non riesce comunque a risolvere la questione. Ma Don Quijote è “postumo” prima di tutto a se stesso, non vede la realtà perché non vuole riconoscere il mutamento che ha comportato la fine del sogno, e neanche il suo goffo scudiero riuscirà a portarlo sulla strada di una visione sì più autentica, ancorata al reale, ma anche infinitamente più desolata e desolante (ancora le rovine: cinema delle rovine, e rovina del cinema). Don Quijote è l’ultimo a vedere i “trucchi stregoneschi” dell’arte in un mondo ormai collassato, e Paladino, attraverso quell’altro trucco stregonesco che è il cinema riesce a mantenerlo in vita, a non impedirgli di smettere di sognare.

 

Luca Verrelli

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