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18 Febbraio 2013

Qualcosa nell’aria Olivier Assayas

2012 - Francia

Qualcosa-nell-ariaOlivier Assayas, con "Qualcosa nell’aria", riesce dove pochi sono riusciti, a fare cioè un film sul Sessantotto e sugli anni subito successivi (l’azione si svolge nei primi anni Settanta, dunque après mai, come recita il titolo originale del film) che pur essendo totalmente militante e impegnato non è né retorico né, soprattutto, nostalgico. L’educazione politica e sentimentale del giovane Gilles (personaggio permeato da ricordi autobiografici del regista) diventa lo specchio delle conseguenze politiche e sociali di un’epoca tutta. Gilles e i suoi amici rappresentano la deriva di contraddizioni generatesi all’interno del maggio parigino, e le scelte portate avanti dai personaggi rappresentano i vari sbocchi in cui si diramò il movimento negli anni immediatamente successivi al suo decollo.  È fin troppo noto l’aneddoto, vero o presunto, che vede protagonista un anziano Eugene Ionesco che, affacciatosi alla sua finestra durante una manifestazione di studenti apostrofava i giovani in rivolta con un rabbioso: «Tra dieci anni sarete tutti notai», conscio delle troppe contraddizioni ideologiche di quegli anni.

 

Nel film di Assayas questo è già nell'aria, l’inizio del riflusso, il passaggio da una generazione che credeva nel futuro ad una che da lì a qualche anno avrebbe predicato – e messo in pratica – l’impossibilità anche solo di pensare il futuro: “No future”, parola d’ordine del punk, movimento che culturalmente è figlio (come Assayas) del Sessantotto situazionista, ma che è più ancorato ad una realtà urbana e ad un’idea di rivoluzione estetica che considera la realtà impermeabile all’idealismo dell’ideologia. Tant’è che nel film compare anche il celebre manifesto con lo slogan Une jeunesse que l'avenir inquiete trop souvent, in cui la frase era accompagnata dall’illustrazione di un volto bendato con la bocca chiusa da una spilla da balia, quella stessa spilla che nel Settantasette chiuderà la bocca alla regina Elisabetta nel famoso collage che illustrava God Save the Queen dei Sex Pistols. 

 

Qualcosa nell’aria è un film sull'utopia e al tempo stesso sulla sua fine, è la resa cinematografica della fine di quell’idillio hippie-bucolico di cui pure il protagonista aveva fatto parte, ma che col passare del tempo inizia a sentire sempre più distante da sé, perché inevitabilmente latore di una complessità che molto spesso risultava essere fruttoqualcosa-nell-aria di un’analisi affrettata della realtà e dei rapporti di classe. E se quel terremoto era necessario, e di lì in poi sarebbe stato irreversibile perché naturalmente autogeneratosi, negli anni successivi ci si doveva interrogare sulle conseguenze e sulle ramificazioni di una corrente che smise immediatamente di essere unitaria. Siamo infatti nel periodo dei grandi scontri ideologici interni al movimento, momenti di grandi dibattiti teorici, sulla politica, sul marxismo, sull’anarchismo, sull’arte, sul cinema (torna la critica al cinema d’agitprop di quegli anni, che Assayas, ex critico cinematografico, aveva già accennato  in "Irma Vep").

 

Il film, dunque, è la chiara metafora di una situazione di passaggio, in cui le magnifiche sorti e progressive del marxismo militante (declinato nelle sue innumerevoli e spesso sofistiche differenziazioni: maoisti, trotzkisti, anarchici, situazionisti) vengono sostituite da uno spirito anarchico (ma figlio anche della riflessione pasoliniana sull’epoca) che coincide con una presa di consapevolezza – come nella migliore tradizione del romanzo di formazione – del protagonista (e dunque del regista), che non a caso in questo scavalcamento ideologico sostituisce i pensieri di Mao con le pubblicazioni dell’Internazionale Situazionista, primo tassello d’un ripensamento critico di un periodo e nascita di una coscienza che, pur rimanendo profondamente militante (ma forse più individualista, d’altronde scriveva Debord che “niente è più naturale che considerare ogni cosa a partire da sé”, e nel film  inoltre si cita Max Stirner), viene purgata da un ideologismo che iniziava a mostrare le proprie falle.

 

senza-titoloE proprio di Debord è la fonte primaria e chiave di lettura della vicenda; l’intellettuale che più ha influenzato il regista nella sua ricerca di una radicalità nel cinema che, figlia della nouvelle vague, non cerca una sintassi sperimentale ma agisce sulla realtà in maniera militante, alla ricerca di un ripensamento critico (ma non revisionista) di fenomeni spesso traditi da una lettura che non riesce a scollarsi di dosso sia la becera ideologia sia, soprattutto, la nostalgia idealizzata. E Assayas analizza proprio quell’ideologismo che, in alcuni casi, andava scemando verso un estetismo “psichedelico” assolutamente fine a se stesso, in altri e ben più gravi casi scivolava invece verso derive più pericolose. E qui diventa assai forte il legame con "Carlos", capolavoro del regista, e grande affresco della lotta armata in Europa e nel Medio Oriente tra gli anni Settanta e Ottanta, precisa continuazione di alcune situazioni che in Qualcosa nell’aria sono trattate e analizzate nei loro momenti nascenti, in uno stadio ancora larvale, ma pronto ad esplodere in maniera spesso incontrollata, e soprattutto poco meditata.

 

Qualcosa nell’aria viene a chiudere un’ideale trilogia che ha come primo e secondo capitolo "The dreamers" di Bertolucci e "Gli amanti regolari" di Philip Garrel (ma non andrebbe dimenticato un altro film, sempre di Assayas, "L’eau froide", del 1994). Si potrebbe dire che se il film di Bertolucci rappresenta (per parafrasare un altro titolo del regista) il momento prima della rivoluzione, e il film di Garrel quello durante la rivoluzione, il film di Assayas scandaglia i travagliati problemi legati al dopo la rivoluzione (après mai, appunto); il momento in cui, cioè, le contraddizioni cominciavano a dimostrare tutto il loro peso e la loro ingovernabilità, in cui l’utopia rivoluzionaria cominciava a soccombere sotto il peso diqualcosa-nell-aria- una prassi che era sempre più difficile non solo gestire, ma anche e soprattutto portare avanti con un codice condiviso e libero da quei condizionamenti che spesso si rivelavano castranti e che bloccavano sul nascere qualsiasi idea (anche cinematografica: l’infinito discorso sul cinema rivoluzionario). Anche in The dreamers, infatti, si parlava di sesso, di cinema e di politica, ma nel film di Bertolucci la narrazione non è immune da una certa nostalgia per i (bei) tempi andati (dettato anche dal ruolo che Bertolucci stesso ricopriva in quegli anni come cineasta). Nel film di Assayas la nostalgia è stemperata da una distanza critica, inedita per un film su quegli anni, che al film di Bertolucci per forza di cose manca.

 

Cade il mito dell’amore libero, cade il mito di una sintassi cinematografica realmente rivoluzionaria e staccata dall’estetica del cinema borghese, di una nuova estetica difficilmente praticabile per i limiti stessi del movimento, cade l’idea di un moto di pensiero e di lotta unitario e tendente tutto ad uno stesso fine. L’utopia politico-cinematografica da camera di The dreamers funzionava appunto solo se chiusa tra le mura domestiche di un appartamento: il film di Assayas dimostra come, una volta scesi in strada (nel mondo) le contraddizioni prendevano il sopravvento sull’idealismo e sulla stessa ideologia. Non c’è più niente da sognare, ma è giunto il tempo di prendere una decisione sulla sorte della propria realtà (sulla realtà, non sulla vita: Assayas è tutto tranne che reazionario), che riguardi una scelta, sia essa la lotta armata, l’arte, l’autodistruzione o la consapevolezza di una realtà che ha troppe sfaccettature, troppi rovesci della medaglia, per poter essere interpretata in modo univoco. E questa consapevolezza (che poi non è nient’altro che il formarsi di una vera coscienza critica) è la forma più pura di radicalismo militante che possa esistere: il diritto al dubbio, alla critica.

 

Luca Verrelli

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