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9 Maggio 2024

La Zona D’Interesse Jonathan Glazer

2024 - I Wonder Pictures

Regia di Jonathan Glazer. Con Christian Friedel, Sandra Hüller, Johann Karthaus, Luis Noah Witte, Nele Ahrensmeier. Titolo originale: The Zone of Interest. Genere Drammatico, Storico, - Gran Bretagna, Polonia, USA, 2023, durata 105 minuti. Uscita cinema giovedì 22 febbraio 2024 distribuito da I Wonder Pictures. 

"La Zona D' Interesse", una nuova inquietante prospettiva sull’Olocausto che consacra il talento di Jonathan Glazer. Rappresentare la Shoah sul grande schermo è da sempre un’enorme responsabilità per l’artista. Molti registi, anche autorevoli, non riescono a sopportare il peso di mostrare il genocidio perpetrato durante la Seconda Guerra Mondiale. Intendiamoci: la storia del cinema può contare su una vasta gamma di pellicole che racconta, da un lato, la delirante barbarie del nazifascismo, e, dall’altro, l’insostenibile sofferenza dei perseguitati. Nella quasi totalità dei casi, però, la narrazione viene circoscritta a livello temporale: talvolta si arresta alle soglie della deportazione, talaltra principia nell’immediato dopoguerra, quando i colpevoli sono chiamati a rispondere delle proprie azioni, e i sopravvissuti si ritrovano a fare i conti con quel che rimane della loro essenza. Ma la storia che alberga oltre il filo spinato, l’orrore che si consuma all’interno dei campi di sterminio (o nella variante urbana del ghetto) è un tabù difficile da sfatare. Una breccia viene aperta, sin dall’immediato dopoguerra, per mezzo dei documentari (ricordiamo, fra i più pregevoli, “Notte e Nebbia” di Alan Resnais), dove la grammatica cinematografica è limitata all’asciutta ricostruzione delle fonti storiche. In fondo, il principio “Se comprendere è impossibile, conoscere è necessario”, di leviana memoria, trova necessariamente applicazione nella Settima Arte; il più idoneo utilizzo della macchina da presa, in questo caso, potrebbe essere strumentale alla semplice divulgazione dei fatti. Andare oltre, sfruttare a fondo le potenzialità visive e narrative del cinema nei miasmi dei lager, è una sfida oltremodo ardua. Non manca qualche coraggioso tentativo in tal senso, negli anni in cui la ferite della Shoah grondano di sangue fresco (pare d’obbligo menzionare il validissimo “Kapò” di Gillo Pontecorvo, datato 1960): tuttavia, si tratta di iniziative piuttosto isolate. Il cinema autoriale sfonda prepotentemente le porte della ghettizzazione nell’ultimo trentennio. Forse, in un’epoca in cui i tempi sono maturi per fare i conti, fino in fondo, con il pesante fardello lasciato all’umanità dal XX secolo. Due giganti della cinematografia moderna se ne assumono la responsabilità, e si contendono, secondo l’opinione dominante, lo scettro per la migliore opera sulla Shoah. Il primo candidato è Steven Spielberg, con il pluripremiato “Schindler’s List”, l’opera magna in cui l’asfissiante bianco e nero delle aberrazioni naziste viene minato dal rosso speranza che indossa una bambina dall’ineluttabile destino. Il secondo competitor è Roman Polanski, il cineasta dall’esistenza dannata, che riesce a sprigionare gli incubi della sua innocenza violata dall’antisemitismo nel sontuoso “Il Pianista”. Al cospetto di questi due grandi capolavori, sembrerebbe residuare poco spazio per parlare, con toni incisivi, dell’Olocausto sul grande schermo. Eppure, alcuni autori, inserendo quegli elementi di originalità che risultano indefettibili, riescono a confezionare ottimi prodotti sul tema. Su tutti, ci è mirabilmente riuscito Làszlò Nemes con “Il Figlio Di Saul”, per mezzo di una cinepresa incollata alla schiena del protagonista che, come un’Antigone contemporanea, combatte per riservare una degna sepoltura al presunto figlio vittima delle camere a gas. Tuttavia, le opere che – ad oggi – hanno ripreso la (non) vita che scorre all’interno dei lager, sono state precipuamente orientate – da varie angolazioni – alla sofferenza degli internati, come un doveroso tributo per l’alienazione fisica e corporea che la storia ha riservato al popolo eletto. Nelle produzioni sull’Olocausto, è presente uno spazio vuoto: lo sguardo sulla routine degli aguzzini, l’indifferente ritmo circadiano dei criminali per decreto.

Proprio in questo solco si inserisce la sfida di Jonathan Glazer. “La Zona D'Interesse” è un film sulla giornata tipo di un alto burocrate tedesco nel Terzo Reich, la cui scalata ai vertici del palazzo culmina nella direzione del campo di concentramento di Auschwitz. Non vi sono le classiche scene sui lavori forzati, i folli esperimenti medici, la tortura e l’annientamento delle vittime. L’occhio del cinema si sposta pochi metri fuori dal reticolato, nell’abitazione di Rudolf Höss: un ambiente domestico regolare, quasi armonioso, e del tutto insensibile al tanfo delle esalazioni mefitiche. Non è tanto la banalità del male descritta da Hannah Arendt, quella mediocrità di un imputato ossequioso al mero valore dell’obbedienza, un burattino incapace di interrogarsi sulla portata delle proprie azioni.

Si potrebbe parlare di quotidianità del male, di assoluta normalità del male. Il principale aguzzino di Auschwitz è un marito rispettoso e un padre amorevole, a capo di una famiglia che costruisce la sua comfort zone a pochi passi dall’orrore. Il profilo di uomo comune, dissociato dall’atmosfera infernale, si spinge al punto di ritenere la residenza assegnatagli dal Reich come il luogo più edificante per la crescita dei figli. La macchina da presa è fissa, ad altezza uomo, nell’interno dell’abitazione di Höss. Un immobilismo ossessivo, un acuto stallo visivo sulle rigide geometrie di un microcosmo, sui movimenti abitudinari, sulle pulsioni meccaniche degli uomini che costituiscono l’affresco di un’intera Nazione. Le pareti rimbombano delle urla dei prigionieri, dei latrati dei cani, degli spari delle SS. Ma tutto questo avviene rigorosamente fuori campo, in un’altra dimensione. Nessuno si scompone. Anzi, quando avverte il bisogno di una salubre boccata d’ossigeno, la famiglia Höss entra nel rigoglioso giardino della tenuta: uno spazio coltivato con estrema cura e meticolosità, dove il vivace colore dei fiori fa da pendant al vapore degli inceneritori che si scorge oltre il muro.

Nella quotidianità perfetta del sodalizio domestico fa capolino, di tanto in tanto, qualche elemento di rottura: sprazzi di verità che emergono dai recessi dell’anima. Si manifestano negli incubi visionari della figlia, nella fuga nottetempo della suocera, finanche nei conati di vomito che stemperano l’assoluta imperturbabilità del protagonista. Additati come occasionali elementi di disturbo della quiete dittatoriale, vengono prontamente corretti o ignorati: purtroppo, non hanno la forza necessaria per corrompere l’emisfero straniante del Grande Fratello hössiano. Jonathan Glazer trova la massima espressione della sua poetica al quarto lungometraggio, e dopo una carriera dedicata principalmente ai videoclip (ricordiamo, fra tutti, la sua firma per “Karma Police” dei Radiohead). Raggiunge l’apice della popolarità e del consenso, anche da parte della critica più autorevole, con un’opera sperimentale che riesce a destrutturare il classico paradigma della narrazione sulla Shoah. Un’audacia che gli vale il riconoscimento dell’Academy come miglior film in lingua straniera. La famigerata zona di interesse viene immortalata per mezzo di elementi che hanno caratterizzato, con alterne fortune, le precedenti opere del regista britannico. Come in “Birth” e, soprattutto, in “Under My Skin”, il sonoro – insignito anch’esso del Premio Oscar - riveste una posizione centrale nella pellicola, e avviluppa lo spettatore con ritmi incessanti e psichedelici. I movimenti della macchina da presa vengono ridotti al minimo. Il sapiente utilizzo dei campi lunghi permette di fondere, in un unico quadro, e senza apparente distonia, i due emisferi – celestiale e apocalittico - separati dal muro divisorio. Ancora, dai precedenti lavori di fantascienza viene mutuato il ricorrente utilizzo del nero, la penetrante oscurità che avvolge l’intero schermo, talvolta interrotta da uno spiraglio bianco in fondo al tunnel. Come la luce che squarcia le tenebre in cui è avvolto il protagonista, e che cattura il suo sguardo disorientato. Cosa rappresenta quel bagliore? Forse il futuro, le macerie che i posteri erediteranno dalla lucida follia nazista. Ma, in fondo, non è il caso di soffermarvisi. La discesa negli inferi prosegue senza soluzione di continuità. Perché il mostro alberga, silenziosamente, anche negli uomini comuni. Il corso degli eventi ne sedimenta i tentacoli. Mentre il mondo cammina apatico. Osservare questo fenomeno potrebbe essere spaventoso quanto la violenza dei massacri.

Alessio Fugazzotto

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