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18 Novembre 2018

Il Primo Uomo (First Man) Damien Chazelle

Nelle sale italiane dal 31 ottobre 2018 - Stati Uniti

Dal romanzo omonimo di James R. Hansen - Sceneggiatura: Josh Singer - Fotografia: Linus Sandgren - Montaggio: Tom Cross - Musiche: Justin Hurwitz - Cast: Ryan Gosling, Claire Foy, Lucy Brooke Stafford, Jason Clarke, Kyle Chandler, Corey Stoll, Patrick Fugit, Christopher Abbott, Ciarán Hinds, Olivia Hamilton, Pablo Schreiber, Shea Whigham, Cory Michael Smith, Lukas Haas, Brian d'Arcy James, Ethan Embry, Anna Chazelle, J.D. Evermore, Dustin Lewis, Gavin Warren,  Charles Carroll, Mark Kelly,  Michael Lee Kimel, Luke Winters - Genere: Biografico – Distribuzione internazionale: Universal Pictures - Durata:141 min.    

 

54650Dal primo all’ultimo uomo. A quanti hanno visto o pensano di andare a vedere “First Man”, consigliamo di non mancare di vedere anche il documentario, “The Last Man on the Moon”, sull’ultimo astronauta andato sulla Luna, Eugene Cernan, scomparso nel gennaio del 2017 (visibile su Netflix, dove è possibile vedere anche il più recente “Mission Control: gli eroi sconosciuti dell’Apollo”, entrambi di produzione inglese). Quello che emerge è che la storia privata di Neil Armstrong, su cui il film di Damien Chazelle si concentra, non è la storia di un  singolo astronauta, ma racchiude in sè qualcosa di universale, che non a caso si ripete nelle vicende private di quasi tutti loro. 

 

Da una parte abbiamo una vicenda planetaria, densa di significati politici e simbolici, dall’altra una che rimanda al nucleo più intimo dell’essere uomo, animale uomo, nel suo rapporto con la propria specie e la morte, e in questo nel suo rapporto con la differenza base di genere, tra uomo e donna. Tra maschile e femminile. Lo dice lo stesso regista: «Questa è una storia che doveva essere articolata tra la Luna e il lavello della cucina». Più che una scelta personale si tratta di una adesione all’oggetto di indagine. Ne nasce un film con due facce, non separabili l’una dall’altra, ma impossibile da comporre in un solo sguardo. La forza del film è di essere riuscito a raccontarle entrambe in un unico sviluppo narrativo. Ed è come aver visto due film diversi e noi preferiamo parlarne separatamente.

 

Il dito e la Luna. L’ultima Frontiera di un’America che perde il futuro
Chi pensa che l’America sia una sciocchezza, buona solo per bambinoni, e di conseguenza che il suo impero “culturale” sia roba dovuta a multinazionali e arrogante dominio commerciale, poco ha capito della contemporaneità. Dovrebbe prima vedere i western di John Ford, e se non basta leggersi “Ritorno del pellerossa – Mito e letteratura in America” di Leslie A. Fielder. Cosa c’entra con il viaggio sulla Luna? Lo intuiva bene Oreste Del Buono quando nel 1982 sul numero monografico di Cult Movie neil-armstrong-ryan-goslingdedicato al regista per eccellenza dei western, sentiva la necessità di ipotizzare che solo la Space Opera potesse strappare alla Horse Opera il posto di racconto epico del nostro tempo. Cosa li accomuna? La Frontiera, ossia il mito fondativo dell’essere americano, ma al contempo il mito più universale che ci possa essere. Non a caso la differenza tra tutte le nazioni nate nelle Americhe dalle colonie europee e gli USA, è proprio quello d’essersi sganciata più di altri dalle origini inglesi, mentre tutte le altre restavano legate a inglesi, francesi e spagnoli. I grandi dominatori del Continente. Gli USA nascono invece dalla corsa da costa a costa di chi sul Continente non aveva futuro. Il mito della Frontiera nasce dall’immigrazione, questa sì universale, di tutti gli esclusi, prima forzata come schiavi e poi volontaria di ebrei (vittime di pogrom e stragi continue), irlandesi (vittime degli inglesi), italiani del sud e veneti (vittime sociali della nostra unione), e poi ancora cinesi e via via, con minor peso, da ogni angolo del mondo. Lo scontro di costoro con le culture indigene è l’unica ad aver fatto nascere un’Epica moderna: quella del Western. Che non a caso si impone anch’esso come il genere, il metagenere per eccellenza, in ogni angolo del mondo.

 

downloadQuando John Fitzgerald Kennedy lancia il programma spaziale non a caso rimanda alla Frontiera, nel suo discorso, lo stesso che sentiremo ripetere sul Monitor nella stanza dove Armstrong viene messo in quarantena di ritorno dalla missione (nonostante alla Presidenza ci sia da tempo il rivale Nixon). «Lo spazio è lì e noi partiremo alla sua conquista e anche alla conquista della luna e dei pianeti, verso nuove speranze di conoscenza e di pace» queste le parole conclusive, pronunciate nel 1962, sette anni prima dello sbarco. Un tempo brevissimo se si considera il costo, in termini sia di vite umane sia di finanze, e il ritardo con cui gli USA partivano rispetto all’Unione Sovietica. Perché se parliamo di Frontiera o di Sole dell’Avvenire, parliamo di futuro, parliamo di speranze, parliamo a tutto il mondo e a tutta l’umanità, ed è evidente il contesto di questa ultima Corsa all’Oro, la promessa di un futuro migliore per tutti. Quella corsa verso lo spazio era una competizione simbolica tra firstmandue modi di vedere la speranza e il futuro. Ed è qui che nasce la frattura più dolorosa, di un impresa che è costata un sacrificio in qualche modo inutile. Quando Armstrong mette il piede sulla Luna, i giovani d’America stanno bruciando le bandiere e le cartoline di precetto per il Vietnam, e Nixon sta portando il paese nel baratro. Nei cuori di tanti giovani il nome che rimarrà nel cuore sarà quello dell’astronauta sovietico, Jurij Gagarin, e pian piano si diffonderà anche la leggenda che lo sbarco non sia mai avvenuto e che sia un film costruito ad arte per ingannare l’umanità intera. Nel film, oltre agli echi delle proteste per il costo dell’impresa sentiamo le parole del padrino del rap nero Gil Scott-Heron incedere con Whitey on the Moon sulle immagini terrificanti dei tre astronauti carbonizzati durante un preflight. Non si sa se il brano venne realmente declamato davanti a folle di giovani in rivolta, ma venne pubblicato un anno dopo lo sbarco sulla Luna nell'album di esordio dell'artista "Small Talk at 125th and Lenox". La scelta di first-man-damien-chazelle-1053805affidare a questo brano l’idea di quanto l’America fosse divisa e distante dall’impresa lunare è stata, per ammissione dello stesso sceneggiatore Josh Singer, voluta da Damien Chazelle e risulta particolarmente felice, non essendo "First Man" un film di ricostruzione storica. Bastano queste parole a raccontarcelo: «Un topo ha morso mia sorella Nell, con Whitey sulla luna. La sua faccia e le sue braccia cominciano a gonfiarsi, e quelle di Whitey sulla luna. Non posso pagare le spese mediche, ma Whitey è sulla luna. Tra dieci anni starò ancora a pagare, mentre Whitey è sulla luna». L’autore, Gil Scott-Heron (il cui brano più famoso, del 1968, fu Revolution Will Not Be Televised), è interpretato in modo entusiasmante dal musicista soul texano Leon Bridges (nel 2018 al suo secondo album).

 

A rivederlo oggi fa impressione. Duole comprendere come quegli uomini si siano sacrificati per qualcosa che meritava molto più rispetto e partecipazione. Non era colpa loro se il tempo era sbagliato. Qualcuno indicava la Luna, ma il dito era davvero sporco e marcio. Non lo era lo spirito che l’aveva animato e oggi ne proviamo nostalgia. Nostalgia di un futuro perso, insieme ai viaggi nello spazio, come ostinatamente cercherà di testimoniare sino alla fine dei suoi giorni l’ultimo astronauta Eugene Cernan, che invitava i giovani a pensare di andare ora su Marte. Come lo stesso Neil Armstrong (egregiamente interpretato da Ryan Gosling), ingegnere di grandi capacità e non militare, dice alla commissione d’esame che lo deve selezionare per le imprese: «andiamo nello spazio per conoscere qualcosa che non possiamo sapere, non solo per espanderci». Uno spirito da pioniere.

 

La Thule che lacera il cuore dell’uomo

Così mentre gran parte della gioventù cercava la propria Frontiera altrove, nel comunismo o in ideali di rottura con quell’America impegnata nella corsa spaziale, Neil e gli altri astronauti restavano ancora più soli di quanto già non fossero. Questo perché il loro sacrificio per prepararsi all’impresa li separava sempre più da ogni contesto sociale, 506017_20140719_m2incluso quello famigliare. Per loro anche i figli non esistevano più e le loro mogli hanno raccontato spesso cosa hanno dovuto sopportare in un’America che intanto, nel secondo dopoguerra, aveva costruito tra i più reazionari scenari domestici che si conoscano, imprigionate in un ruolo sociale senza nemmeno più la giustificazione dei lavori di casa massacranti. Probabilmente, a vedere il film di Damien Chazelle si può pensare che la forza d’animo giusta per essere il “primo uomo” a Neil Armstrong l’abbia dato proprio il lutto. Il tema del lutto, fisico con la figlia e sentimentale con la moglie (una strepitosa Claire Foy, felicemente reduce dall’aver portato “The Crown” nell’omonima serie TV) è il tema dominante del film, sino ad assorbire e dare un senso anche al lutto del Futuro di cui ci parla la vicenda storica e di cui abbiamo provato a dare una traccia nel precedente paragrafo. Probabilmente è anche il motivo ispiratore di un film così diverso da “La La Land” e apparentemente lontano da esso. A ben vedere anche qui il sodalizio artistico tra il regista e l’attore Ryan Gosling trova la sua chiave di lettura. In entrambi è l’amore a separare, in entrambi è una dialettica tra l’andare e il restare. Tra esplorare e mettere radici. L’immagine finale del film con il volto di Janet Armostrong sdoppiata ai due lati del firstmanmaxresdefaultquadro, il marito Neil da lei separato da un vetro perché in quarantena, e il suo riflesso proiettato alle spalle dell’uomo, entrambi consapevoli che ormai a separarli non è solo il vetro. Lui, l’astronauta, come ogni eroe dell’epica western, è condannato a viaggiare da solo. La donna, come nella tradizione della letteratura romanza cavalleresca, può solo essere portata dentro di sè. E dentro di sè per tutta l’impresa, che dura dal 1961 al 1969, Neil porta già da sempre la figlia morta da piccola. Il film si apre con le scene della piccola Karen (Lucy Brooke Stafford) tra le sue braccia, che si addormenta con la testa sul suo collo. Subito dopo lui le prende i capelli dorati e li strofina tra i polpacci, osservandola dormire. Sono immagini che torneranno spesso. Un bimbo che si addormenta in braccio non sta lasciando per un po’ il mondo, sta entrando nell’unico mondo per lui vero e da cui non avrebbe voluto separarsi, dove finalmente torna ad essere semplicemente il mondo. Il ventre, che sia la spalla della madre o di un tenero padre, sta tornando a essere tutt’uno con loro, a essere padrone e servo, io e altro. Se lo riponi sul letto, dopo aver sentito sul phpThumb_generated_thumbnailtuo collo il suo alito caldo esalare felice il respiro di ingresso in quella condizione, puoi restargli accanto e accarezzargli i capelli, attento a non svegliarlo, provando solo nostalgia di quel sonno e mistero per quanto hai dimenticato del tuo. Siamo stati tutti primo uomo. E tutti dovremmo continuare a sognare l’ultima Thule, quella zona d’Occidente che per secoli il mondo ha solo sognato e che poi spingendosi oltre le colonne d’Ercole ha potuto sognare di realizzare. Oggi che lo spazio terrestre è occupato, e l’Oriente si fonde, in un tutt’uno senza fine, con l’Occidente, non restava che quello spazio. L’Odissea nello Spazio. Ma in quello spazio si è soli.

 

Primo e ultimo uomo

Al contrario del superomismo kubrickiano qui la solitudine è esistenziale. L’aspetto più interessante del film è questa dimensione claustrofobica, dove vibriamo continuamente insieme a Neil, perdendo ogni senso dello spazio e con pochissimi spiragli per capire dove siamo e perché stiamo sballottolati a quel modo. A guardare quei bulloni e quelle manopole non c’è da crederci. Una follia. Restare sospesi a rimbalzare sull’atmosfera, ogni rimbalzo proiettati più in alto, condannati così a non poter ricadere sulla terra. Questa la prima di numerose scene dove si tocca davvero con mano l’assurdità dell’impresa. Ne chazelle (1)furono tutti consapevoli, anche chi restava a terra a guardare e monitorare. Spesso incapace di suggerire una via di fuga all’astronauta. Neil Armstrong fu scelto proprio per questo, perché rischiando faceva la cosa sbagliata al momento giusto, forte delle sua preparazione scientifica. Nel film altri scienziati sono ricordati, in specie dall’autore del romanzo da cui il film è tratto, James R. Hansen, che si è ritagliato un cammeo. Compare senza crediti nei panni di Kurt Heinrich Debus, uno degli ingegneri tedeschi che per Hitler progettarono e fecero partire i temuti V2, i razzi che sono stati alla base del lavoro da loro svolto per la NASA. Altri loro colleghi, in specie quelli della Skoda, lavorarono per i sovietici, e si racconta che sapessero costruire Dischi Volanti, ma questa è un’altra storia, sempre di viaggi nello spazio e di sogni di altri mondi. E ovviamente anche di cinema.  

 

Angelo Amoroso d’Aragona

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