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10 Maggio 2012

IL PRIMO UOMO Gianni Amelio

2012 - Italia/Francia/Algeria

Il Primo Uomo GIANNI AMELIOAmelio-Camus: già dalla locandina il film chiarisce subito le sue intenzioni. Il nome  dell’autore del romanzo (l’ultimo, incompiuto) da cui è tratto il film di Gianni Amelio pare star lì a ricordarci la sua presenza, e – affiancato al nome del regista – sembra sancire una collaborazione a distanza, la scelta del punto di vista della narrazione della storia, che il regista calabrese sembra condividere e far convergere con quella dello scrittore francese-algerino scomparso nel 1960. Non solo, dunque, un film tratto da, ma anche e soprattutto un film pensato e realizzato con l’intenzione di ripercorrere l’ispirazione di fondo del romanzo: non semplice trasposizione, ma rilettura (ri-scrittura, ri-filmato) d’un pensiero di fondo, e a ben vedere, condiviso tra l’autore presente e quello passato (ma che nel film rinnova la sua presenza, e lo fa attraverso una profonda riflessione sull’assenza). E d’altronde un romanzo come “Il primo uomo”, in cui la finzione e l’autobiografia si stemperano l’una nell’altra, non poteva avere un trapasso cinematografico pensato diversamente.

 

La storia si snoda su due linee temporali. Da un lato il presente, l’Algeria ancora per poco colonia francese del 1957, paese in cui Jacques Cormery (un pied noir, scrittore di successo in Francia e di idee anticolonialiste) torna dopo molti anni ritrovando i luoghi della sua infanzia terribilmente scissi, devastati da un conflitto che il peso del colonialismo aveva trasformato da lotta per l’indipendenza d’un popolo a mero atto di terrorismo da reprimere nel sangue; ma soprattutto paese in cui ritrova – lui che è stato tutta la vita alla ricerca d’una figura paterna – la madre, donna forte ma con un fondo di tristezza scolpito nell’anima, strettamente legata a quei luoghi (davvero madre-patria). Dall’altro lato il passato: l’infanzia ad Algeri, la povertà, una famiglia tutta matriarcale (la paternità ricercata altrove, a scuola, o truffautianamente nei libri). L’ambiente, insomma, in cui il giovane Cormery imparerà ad essere l’uomo che sarà in futuro, e in cui inizierà a scontrarsi con il controsenso del colonialismo, e capirà la dignità (e l’esistenza stessa) di un popolo (quello algerino in toto: arabi e pieds noirs) che il nazionalismo francese tenterà sempre di negare, prima di tutto a se stesso. 

 

La sovrapposizione di un tema politico e scottante, per molto tempo tabù in Francia, come la questione algerina (e chi ricorda “La battaglia di Algeri” di Gillo Pontecorvo sa perché; e proprio a questo film la pellicola di Amelio non può non rimandare nella messa in scena di quei temi) con l’intimo di una vicenda privata in cui però la riflessione esistenziale si riallaccia necessariamente alla contingenza storica, pur passando prepotentemente attraverso la vita dell’individuo, connette i due temi in un unico e inscindibile piano d’azione. La prospettiva camusiana si riallaccia con molti punti chiave della cinematografia di Amelio, primo fra tutti il tema della paternità, problematica e molto spesso negata, caratteristica di molti film del regista (si veda il bellissimo “Le chiavi di casa”), ma anche quello dell’infanzia e della formazione della coscienza, ed esplicita in ottima maniera quella convergenza di intenti, sfasata temporalmente, tra romanziere e regista cui si accennava prima, riallacciandoli con una naturalezza davvero notevole. Ma se l’elemento paterno viene a mancare, quello materno si concretizza nei personaggi femminili che ruotano attorno al protagonista, la madre e la nonna, poli opposti cristallizzati della rappresentazione dell’amore e del rigore: una presenza forte che fa di tutto – nel bene e nel male – per supplire all’assenza del padre.

 

Il primo uomo” è un film fondato su una continua ricerca, sull’instabilità delle cose: ricerca di una figura paterna e allo stesso tempo ricerca di una “patria” intesa come concetto che scavalca il nazionalismo colonialista e che si lega al concetto di appartenenza ad una “terra comune” e condivisa (al figlio che chiede perché non vuole andare con lui in Francia la madre risponde “perché non ci sono gli arabi”, sintetizzando ottimamente il concetto). Camus (in tempi ormai remoti) e Amelio (oggi), mettono in luce l’inconsistenza del colonialismo, e del cosiddetto “scontro di civiltà”: le civiltà sono fatte di uomini e regolate dai rapporti tra essi, che non potranno mai essere pacifici finché non saranno alla pari, in senso prima di tutto umano; le sovrastrutture politiche non colgono e non coglieranno mai questo punto fondamentale, tanto meno se il pensiero dominante sarà guidato dall’ottusità del nazionalismo e dal colonialismo. 

 

La regia di Amelio è posata ma non rinuncia allo stile e alla messa in scena di notevole intensità (il piano-sequenza in cui la macchina da presa segue il bambino sulla spiaggia, sfiorando i personaggi di contorno e gli altri protagonisti è l’esempio più alto di questa regia che sa essere anche molto presente; ma anche la scena d’apertura in cui l’assenza di profondità di campo rivela prepotentemente il protagonista); la fotografia di Luca Bigazzi è notevole, specie nelle scene d’interno, e dipinge con la luce la faccia di un’umanità molto spesso persa, alla ricerca di punti di riferimento. Inspiegabilmente escluso dall’ultimo festival di Venezia,  quest’ultimo film di Gianni Amelio tocca corde assai profonde e mette in luce alcuni dei rapporti cardine dell’esistenza (il padre, la madre, la patria, il ruolo dell’intellettuale nel dibattito politico…), confermando la grandezza di uno dei nostri migliori registi.

 

Luca Verrelli

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