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9 Gennaio 2023

Il Fascino Discreto Della Borghesia – 50esimo Anniversario Luis Buñuel

1972 - 20th Century Fox

Regia di Luis Buñuel.  1972 -  Con Fernando Rey, Delphine Seyrig, Bulle Ogier, Michel Piccoli, Stéphane Audran, Jean-Pierre Cassel.. Titolo originale: Le charme discret de la bourgeoisie. Genere Commedia - Francia, 1972, durata 105 minuti. 

50 anni fa usciva nelle sale “Il Fascino Discreto Della Borghesia”, la sferzante opera dissacratoria che taglia a pezzetti il ceto dominante. Scrivere un contributo sul genio del maestro Luis Buñuel, sui capolavori visionari partoriti nella sua lunga carriera, è – di per sé – un atto di presunzione. Provare a ricostruire nero su bianco le sue proiezioni immaginifiche costituisce una velleità che, forse, nessuno può davvero permettersi. Eppure, il cinquantenario de “Il fascino discreto della borghesia” è un evento per il quale non si può evitare di spendere qualche parola. Sarebbe irrispettoso verso una pietra miliare della Settima Arte. Il ritratto della borghesia buñueliana è un convivio di sei persone accomunate da una sterile ostentazione di uno status che danno per acquisito, connotato da una legittimazione apodittica, senza una reale consapevolezza delle modalità di acquisizione dello stesso. Uno spaccato della società altolocata anni Settanta, il cui agiato immobilismo è garantito nel tempo dai rappresentanti delle istituzioni che gravitano intorno al sistema. Clero, esercito, forze dell’ordine: presenze satellitari che, intrise da un immancabile velo di ipocrisia, partecipano voracemente al banchetto del privilegio. Non a caso il capobranco del gruppetto elitario è Rafaël Acosta - interpretato dall’attore feticcio Fernando Rey - fiero e impettito ambasciatore dell’immaginaria Repubblica del Miranda, uno staterello ubicato nell’America Latina, e soggiogato da un regime di corruzione e repressione. Un evidente rimando alla situazione geopolitica del periodo, in cui svariate dittature militari insanguinano (anche tramite piccoli e strategici governi fantoccio nelle mani dei giganti del pianeta) un’ampia parte del nuovo continente, con il sostegno del potere economico e gli assordanti silenzi del potere temporale.

La cena, rituale preferito per lo sfoggio di ogni sciccheria, viene costantemente interrotta dalle proiezioni delle paure più recondite di ogni commensale, o dall’esternazione clandestina di alcuni istinti primordiali. Retate, tentativi di sovversione, attacchi al cuore del potere e della virilità. Ogni attentato alla maschera che amano portare, all’involucro che permette di sedersi al tavolo di quelli che contano davvero. Attentati che, probabilmente, restano confinati nella dimensione onirica, ché nella realtà vengono scongiurati dalla colpevole rassegnazione di chi potrebbe imprimere un cambiamento. E poi, l’incubo peggiore. Quello di trovarsi catapultati su un palcoscenico, metafora della loro meschina esistenza, senza conoscere il canovaccio dello spettacolo per cui il pubblico paga il biglietto. Loro, che conoscono a memoria gli aforismi per una vita elitaria, si trovano improvvisamente nudi di fronte alle aspettative sociali. Tra la vacua quotidianità e lo stato di allucinazione, i sei protagonisti si ritrovano costantemente a percorrere una lunga strada deserta di campagna, privi di apparente direzione, senza alcun orizzonte definito.

La scena sembra liberamente ispirata a “Il Quarto Stato” di Pellizza da Volpedo, e ne rappresenta un ribaltamento del paradigma: il ceto abbiente marcia al posto della classe operaia. Il cammino della borghesia, però, appare povero di valori, spaesato, alla stregua di un moto meccanico. Illuminante, a tal proposito, il commento di Ugo Casiraghi, su l'Unità del 18 aprile 1973, che descrive la borghesia buñueliana come «[...] incapace di pensiero, nemmeno sfiorata dal dubbio, improduttiva e parassitaria, assisa sulle proprie voglie animalesche e banali come su un trono di cartapesta, con tutti i suoi pilastri protettivi (il clero, l'esercito, la polizia), conserva ormai se stessa più sulla base dell'inazione che dell'azione. Il suo potere è indissolubilmente legato alla sua impotenza». L’infinito rettilineo può essere una strada senza uscita, il segno che i (non) valori rappresentati dalla borghesia sono destinati all’implosione. O, forse, l’allegoria dell’immortalità di un sistema che riesce a sopravvivere ad ogni stagione, e prosegue la sua sfilata priva di meta, senza alcun cambio di passo, con l’unico obiettivo della conservazione. Luis Buñuel sarebbe morto a una decade di distanza dall’uscita del film, ma il fascino discreto della borghesia – sotto svariate forme – gli sarebbe sopravvissuto. Un’ambivalenza che si pone in linea di continuità con il precedente affresco surrealista “L’angelo Sterminatore” – possibile atto primo della fallita distruzione borghese - in cui la casta resta imprigionata nella propria reggia, avviluppata dai miasmi dei propri cliché, in un’atmosfera di incombente apocalisse. Ma proprio la stoica resistenza degli odiosi cliché libera i perbenisti dalla gabbia dorata, e scongiura l’ingresso nell’Ade, salvo il successivo allestimento di una nuova prigione tossica all’interno di una Chiesa, nel corso di un rituale sacro. Sullo sfondo, le azioni dei subalterni raggiungono un’agevole dissoluzione, represse dalla mano dei soloni dell’ordine. “Il Fascino Discreto Della Borghesia” ha ricevuto encomi pressoché unanimi da parte della critica, nonché plurimi riconoscimenti internazionali. Su tutti, spicca la vittoria del Premio Oscar per il miglior film in lingua straniera, assegnato nella rassegna californiana del 1973. Curioso paradosso: il regno di Hollywood, la più alta ramificazione cinematografica di un sistema che Buñuel prova a destrutturare, elegge il cineasta quale più meritevole artigiano dell’impero.

E lui risponde a tale nomina disertando la cerimonia di premiazione, e innescando un siparietto che ricalca il delirante surrealismo delle sue produzioni. La spregiudicatezza del cineasta, invero, ha sempre causato innumerevoli frizioni con l’establishment. Già ai tempi de “L’âge d’or”, nel lontano 1930, quando l’insostenibile commistione tra l’immagine cristologica e le perversioni del marchese De Sade costringe un giovane Buñuel ad un necessario esilio volontario, da una Francia che inizia a respirare il fetore dell’estremismo. O con il truce ritratto dell’oppio della religione “Viridiana”, ove la demistificazione de “L’ultima cena” culmina nell’inevitabile censura da parte del regime franchista, e negli anatemi del Vaticano. Nell’ultimo periodo di attività, il genio iberico punta il dito contro le presunte democrazie occidentali del dopoguerra, attribuendo la decadenza della civiltà contemporanea a chi dissimula i misfatti del secondo Novecento grazie al credito accumulato nei decenni. In fondo, la borghesia è l’unica classe sociale ad aver vinto una rivoluzione quando era necessario. Sa comporre i conflitti, scongiura le scelte di pancia. È affidabile. L’investitura della statuetta più prestigiosa per un film forestiero potrebbe essere letta come un tentativo di depotenziare la carica eversiva della pellicola, inserendola di fatto nella strada maestra del sistema commerciale. O, più probabilmente, come la velata ammissione che l’ironia caustica e beffarda del regista spagnolo rappresenta una spietata verità. E che il fascino discreto della borghesia serpeggia nell’animo di molti di noi. Dei tanti che non vorrebbero mai bere un Martini senza stile.

Alessio Fugazzotto

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