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23 Aprile 2013

I only want you to love me – Despair Reiner Werner Fassbinder

2013 - Germania

fassbinder dvdRarovideo pubblica, raccolti in cofanetto, due film di Reiner Werner Fassbinder, nome di punta del “Nuovo cinema tedesco” (movimento cinematografico sviluppatosi tra gli anni Sessanta e Ottanta del secolo scorso, che annovera tra i suoi protagonisti, oltre a Fassbinder, Alexander Kluge, Werner Herzog, Wim Wenders, Edgar Reitz, solo per citare i maggiori). I film proposti, finora inediti in home video in Italia, sono “I only want you to love me” (Voglio solo che voi mi amiate), film per la televisione del 1976 e Despair, pellicola del 1977, presentata al festival di Cannes. Due film tra i meno noti (specie il primo) del regista tedesco, ma assolutamente rappresentativi dell’evoluzione della sua poetica.

 

 

I only want you to love me

 

“I only want you to love me” è un film realizzato da Fassbinder per l’emittente televisiva WDR nel 1976, tratto da un libro di interviste a condannati all’ergastolo per omicidio. I rapporti di Fassbinder con la televisione, è ben noto, furono duraturi e molto prolifici; il regista seppe come sfruttare al meglio il mezzo televisivo, realizzando spesso lavori per il piccolo schermo. Un rapporto privilegiato, dunque, che culminerà con la realizzazione di “Berlin Alexanderplatz”, serial del 1980 diviso in quattordici episodi, tratto dal romanzo di Alfred Döblin, uno dei picchi del cinema del regista tedesco. La “piccola” storia del muratore Peter, della sua complicata relazione con i genitori e le vicende della sua famiglia sono la base per un’inchiesta psicologica assai sottile, fondata sul non detto, sul sottinteso, sul significato delle azioni compiute sulla scena. Peter è un proletario che soccombe sotto il suo stesso stato, inglobato in un sistema assai più grande di lui (le cui radici risiedono nei rapporti con i genitori, ma altro non sono che specchio di un’ideologia condivisa) che gli impone l’accumulazione di beni come unico modo di riconoscimento sociale.

 

fassbinderNon il lavoro, dunque, in cui Peter è molto bravo, ma l’ostentazione dei frutti del lavoro, quei beni materiali che trascineranno il protagonista in un vortice che si trasformerà ben presto – e con esiti imprevisti – in nevrosi prima, in tragedia poi.  L’impostazione teatrale del film (Fassbinder fu anche prolifico autore di prosa), nei dialoghi, nelle scene e nei movimenti degli attori (inseriti sempre in un contesto ben studiato e problematicamente costruito, in cui la macchina da presa s’insinua, costantemente in bilico tra la stasi e il virtuosismo) chiarifica l’impostazione da dramma psicologico del film. I punti di riferimento sono dunque ben chiari, e si ritrovano tutti nel grande teatro dell’introspezione e dell’analisi della psiche (ma nei suoi aspetti sociologici ci richiama alla mente anche le dure riflessioni su proletariato e società dei consumi dell’ultimo Pasolini).

 

Questa struttura viene abilmente smontata da Fassbinder, che attraverso un montaggio alternato, in cui presente e passato s’intersecano senza soluzione di continuità, riesce a far pesare di meno sullo schermo l’impostazione teatrale del racconto, a svincolare il cinema dal malinteso del teatro filmato. Questo espediente consente inoltre al regista di creare un climax ascendente in cui certe anticipazioni e certi flashback fanno sì che la costruzione della storia rispecchi l’evoluzione della psicologia del personaggio, in i-only-want-you-to-love-me-posterun matrimonio perfetto tra interiore ed esteriore. Il lavoro di regia e montaggio, infatti, creano una magmatica sovrapposizione tra la vicenda narrata e psiche del protagonista (tra sguardo esterno e interpretazione personale, tra prima e terza persona), intersecando i due piani narrativi, riuscendo a sviscerare i veri motivi psicologici delle azioni compiute (o anche pensate) oltre e ben meglio dei dialoghi. Questa costruzione sorprendentemente innovativa (e per giunta in un film per la televisione), è senza dubbio il punto di forza di tutto il film, aspetto narrativo e stilistico ben calibrato sulla vicenda portata sullo schermo.

 

 

 

 

Despair

 

Tratto da un romanzo di Vladimir Nabokov (in italiano Disperazione), “Despair” è un titolo che apre nuove porte nella filmografia di Fassbinder. Prima coproduzione internazionale importante e primo film recitato in inglese, la pellicola è impreziosita dalla partecipazione di un cast internazionale, a cominciare dal protagonista Dirk Bogarde, affiancato da Andréa Ferréol (forse qualcuno la ricorda ne “La grande abbuffata” di Marco Ferreri). La sceneggiatura, inoltre, è affidata al drammaturgo (e sceneggiatore cinematografico) inglese Tom Stoppard (l’autore del noto dramma Rosenkrantz e Guildestern sono morti). Fassbinder in questo film s’addentra nella tormentata psicologia collettiva di una nazione alla disperata ricerca di un’identità e di una stabilità (psichica prima che politica): la Germania dei primi anni Trenta, agli sgoccioli della Repubblica di Weimar e poco prima della presa del potere di Hitler. Il film mette in scena, con raffinatezza e grande fluidità (nel racconto, nei movimenti di macchina, nella fotografia) il crollo psichico d’un protagonista che è riflesso d’una condizione più generale.

 

despairHerbert Herbert, ricco industriale d’origine russa nel ramo del cioccolato, vaga in un mondo di decadenza (della classe borghese della Germania pre-nazista, anticamera sociale d’un nazismo prossimo venturo), impelagato tra una moglie oca e la bohème di seconda mano e fuori tempo massimo di un’artista da strapazzo. Tutto gli scorre addosso, osserva annoiato il mondo con cinico e rassegnato disinteresse, con uno sguardo dissociato, rivolto dall’esterno verso sé. Questa ossessione spersonificante cresce col passare del tempo, e la semplice dissociazione (tutta interiore) inizia ad estroflettersi verso l’esterno, alla ricerca del sosia, dell’altro sé con cui mettere in piedi un piano di fuga (dalla realtà, dal sé) che si rivelerà inevitabilmente tragico. Fassbinder gioca col tema del doppio, topos letterario che vanta una tradizione illustre (oltre al romanzo di Nabokov, si pensi a Wilde, a Dostoevskij, a Poe, a Pirandello), e mette in scena la ricerca ossessiva di un sosia che si rivelerà da subito essere un falso (un doppio nella mente ma non nella realtà), la costruzione di una psiche dissociata in cerca prima di tutto di se stessa.

 

Il tentativo del protagonista è quello di estromettersi prima di tutto dal proprio io, per trovare un’ancora di salvezza. Lo sfondo della Repubblica di Weimar, un mondo in putrefazione in attesa della catastrofe, fornisce un contraltare politico-sociale rappresentato in tutta la sua decadenza (e la presenza di Dirk Bogarde, ma non solo quella, non può che far pensare alle atmosfere dell’ultimo Visconti); un mondo in cui l’eleganza degli ambienti (sottolineata dalla splendida fotografia di Michael Ballhaus che avvolge le immagini in un’atmosfera quasi onirica) cela il marcio che si nasconde dietro all’ostentata raffinatezza degli stili di vita (ma in realtà assai volgare, perché disinteressata). La macchina da presa si Despair muove morbida negli appartamenti riccamente decorati, tra gli studi d’artista, le fabbriche e i caffè di lusso; e i personaggi sembrano vivere con estrema indifferenza i segni di un totalitarismo in crescita: ad un impiegato presentatosi in fabbrica in uniforme nazista e che gli chiede se la cosa gli crei fastidio il protagonista risponde, con agghiacciante indifferenza, che non ci sono problemi, e che oltretutto quella divisa ha lo stesso colore del cioccolato. La magmatica discesa nella follia del protagonista diventa allora quasi una via di fuga, per allontanarsi da un mondo, da una realtà, da cui difficilmente però si può evadere.

 

Luca Verrelli

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