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14 Gennaio 2015

Cinema ed impegno civile Francesco Rosi (1922-2015)

2015 - Italia

Con Francesco Rosi il cinema italiano perde una delle sue voci più grandi, libere e spregiudicate; il cinema di Rosi rimane uno dei più alti esempi di quel compromesso (non sempre possibile e molto spesso frainteso da molti) tra arte ed impegno che un cinema politico dovrebbe far proprio per non cadere nelle maglie insidiose delle contraddizioni della mera ideologia. Basterebbe analizzare un solo film per renderci conto quanto fosse unico il tratto filmico del regista appena scomparso: quel Le mani sulla città, pellicola del 1963 (Leone d'oro a Venezia lo stesso anno) che ancora oggi riesce a scuotere – e non poco – la coscienza dello spettatore. In un memorabile libro curato dal critico francese Michel Ciment, riguardo al film il regista dichiarava: "Volevo costruire un film su un tema ben preciso: i compromessi del potere economico e politico in una città che cambia fisicamente. Un tale cambiamento fisico corrisponde ad un cambiamento umano. Nella speculazione edilizia non sono negativi unicamente la distruzione di una città e l'aspetto caotico che ne deriva, ma anche la distruzione di una cultura a vantaggio di un'altra ove l'uomo non ha più posto" (Dossier Rosi, 2008).

 

Sembrano parole riferite ad avvenimenti di oggi, e non ad un film di mezzo secolo fa. Un film come Le mani sulla città, pellicola sui compromessi tra speculazione edilizia e potere, girato però senza il minimo compromesso narrativo o visivo, è un documento che come pochi parla dell'Italia di ieri e di oggi, una riflessione amara non solo sulle brutture del potere, ma sulle conseguenze di queste ultime sul paesaggio e quindi sull'uomo. Un film-lemanisullacittainchiesta in cui documentario (la straziante scena del crollo di un palazzo napoletano), e finzione convivono come poche altre volte han fatto nel cinema di tutto il mondo; un'opera che diventa soprattutto (oltre a strumento di denuncia politica) documento antropologico, riflessione su una condizione umana sottomessa alla scelleratezza delle altrui scelte. Il soggetto del film scritto (come la sceneggiatura) a quattro mani con lo scrittore Raffaele La Capria parte come una denuncia dell'amministrazione Lauro e dello scempio edilizio che trasformò definitivamente la fisionomia di Napoli, ma diventa da subito una metafora di tutto il paese; la denuncia per immagini di un malcostume costante e presente da nord a sud: il sacrificio del paesaggio umano (con tutti i suoi significati antropologici) in nome del profitto.

 

Un film, s'è detto, senza compromessi, ma questa assenza di peli sulla lingua ha caratterizzato la carriera di Rosi; bisogna citare almeno altri due suoi film: Salvatore Giuliano, in cui mafia e politica rivelano (prendendo spunto dai fatti di Portella della Ginestra) tutta la loro vischiosa connivenza e convivenza; e Lucky Luciano trasferta americana (molto amata da Scorsese che ne ha curato, di recente, il restauro) ma che francesco-rosinon ha nulla di Hollywoodiano, ricostruzione della biografia del più famoso boss della Cosa Nostra d'oltreoceano. E gli altri titoli ci limitiamo a nominarli soltanto, ben altro spazio ci vorrebbe per analizzarli tutti: non vanno dimenticati almeno Uomini Contro, Il caso Mattei (altro film inchiesta su uno dei più spinosi “misteri italiani”), Cadaveri Eccellenti, Cristo si è fermato a Eboli (tratto dal romanzo di Carlo Levi) fino al più recente La tregua (1997) ultimo film del regista, trasposizione del romanzo di Primo Levi. Cinema e politica, dunque, ma senza mai sacrificare la potenza dell'immagine: perché alla fine è con l'immagine stessa che s'incide sulla realtà. Il cinema non è un mezzo, un'ancella della politica: il gesto cinematografico è esso stesso politico. E i film di Francesco Rosi lo hanno dimostrato e lo dimostrano ancora oggi. 

 

Luca Verrelli

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