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8 Giugno 2013

Effetti collaterali Steven Soderbergh

2013 - USA

effetti-collaterali locandinaUn’automobile ferma in un parcheggio sotterraneo. Al suo interno una ragazza, visibilmente sconvolta, lo sguardo fisso, allucinato. Davanti alla macchina c’è un muro, con una grossa scritta e una freccia: EXIT. Uscita. La via d’uscita, nell’ultimo film di Steven Soderbergh, Effetti collaterali, è il nodo su cui s’avvolge la vicenda dei protagonisti. Una via d’uscita cercata a vari livelli, tentando di scansare le insidie delle uscite fittizie, alla ricerca della verità che si cela dietro un complotto che s’allarga sempre più, fino ad inglobare lo stesso sistema che regge la nostra contemporaneità. Emily Taylor (Rooney Mara) non riesce ad affrontare il ritorno a casa del marito, che ha scontato una condanna per reati finanziari. Dopo un tentato suicidio la giovane si affida alle cure di uno psichiatra che le prescrive un nuovo farmaco per curare la depressione. Ma gli effetti collaterali dell’antidepressivo si riveleranno assai più pericolosi della stessa malattia. È sull’uso poetico della macchina da presa che Soderbergh insiste in questo suo ultimo film. La costruzione dell’immagine, scandita nitidamente da un digitale cristallino, con la fotografia che avvolge le figure, gli oggetti, i volti con una luce dai toni smorzati, satinati, ha una robustezza consistente ma allo stesso tempo sembra scivolare addosso a quanto passa davanti all’obiettivo.

 

Per usare le ormai (forse) vecchie categorie deleuziane il linguaggio è quello dell’immagine affezione, la tecnica cinematografica sottolinea sensazioni e punti di vista condivisi dal personaggio, rende lo spettatore partecipe d’una situazione che spesso è “fuori fuoco”, psichicamente ambigua, porta la visione soggettiva fuori dalla macchina attoriale, la rende condivisa, ambigua, effetti_collaterali_effetti-collaterali-locandina-visoredestabilizzante. La messa in scena guarda ad Hitchcock, richiamato in più di un occasione, sia dal punto di vista formale che da quello dei contenuti, della visione del mondo (del cinema) e dei meccanismi di analisi psichica dei personaggi. La sequenza iniziale, il lento accostarsi della macchina da presa alla finestra di un palazzo rimanda all’esordio di Psycho, anche se forse non trova il coraggio di scavallare oltre quella finestra (quel coraggio che avrebbe fatto del film il capolavoro che in fondo non è); rimane fuori e finisce per entrare – con uno stacco di montaggio – in medias res (quelle tracce di sangue, seguite da una macchina da presa indagatrice) nella situazione che innescherà il flashback che fornirà una prima (ma fallace) interpretazione dei fatti. Gli ingredienti hitchcockiani ci sono tutti, il complotto e la colpa, il vorticoso concatenarsi della colpevolezza in una serie di situazioni che rovesciano i piani d’interpretazione e conseguentemente i punti di vista (quello che si vede non è quello che si vede, almeno la prima volta). Lo svolgersi del film (benché non immune da una certa prevedibilità, ma gli scopi del film, in fondo, sono altri) innesca una serie di ripetuti ribaltamenti che riflettono lo scarto tra innocenti e colpevoli, tra vittime e carnefici, e aggiunge livelli d’intensità ad un complotto che coinvolge, gradualmente, tutti i personaggi messi in gioco.

 

Le strutture hitchcockiane servono però a raccontare intrighi moderni (la polemica sulla potenza delle case farmaceutiche, negli Stati Uniti e non solo; le infinite contraddizioni del capitalismo del terzo millennio, ultima incarnazione di una macchina che, giunta a questo punto d’evoluzione, divora ciecamente tutto e tutti).  Dal semplice omaggio si passa ad una rilettura più calibrata, anche se sempre trasparente, che mette insieme sospetti, ombre del dubbio e soprattutto intrighi internazionali rivisitati e aggiornati ai tempi dell’inside trading. Ma Hitchcock è soprattutto un mezzo per passare dal corpo alla mente, dal cinema muscoloso delle ultime prove del regista, da Magic Mike a The girlfriend experience fino all’ottimo Knock-out, ad una vicenda tutta giocata sul piano della psiche, della malattia mentale e della simulazione. Insomma, del vero e del falso, e Soderbergh non perde quella vena teorica che attraversa sotterranea il proprio cinema, infiltrandosi sottilmente nell’impianto di genere (e non è anche questa una caratteristica del cinema di Hitchcock?). E se è vero che rimane in gioco Channing Tatum (invero un po’ a disagio, con quei bicipiti, nella parte dell’operatore finanziario corrotto), il resto del cast è caratterizzato da una connotazione fisica che non intralcia le interferenze psichiche dei personaggi (prima fra tutti un’ottima Rooney Mara, perfettamente a proprio agio nel ruolo della fragile protagonista). Il capolavoro definitivo non arriva neanche questa volta, ma Soderbergh è un regista che sa perfettamente cos’è il cinema, quello vero.

 

Luca Verrelli

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