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29 Settembre 2012

E’ stato il figlio Daniele Ciprì

2012 - Italia

'E-stato-il-figlio-trailer-ufficiale-e-4-poster-del-film-di-Daniele-Ciprì-Ciprì, senza Maresco, sforna un film che convince solo a metà. A noi, fan di vecchissima data del regista palermitano, "È stato il figlio" ci ha lasciato, più che il proverbiale amaro in bocca (ché il film in fondo ha i suoi pregi), la sensazione che di più poteva essere fatto. Certo ogni nuova impresa abbisogna di un periodo di studio e, forse, di calibratura del tiro, e dico questo non per fornire attenuanti, o per giustificare il regista ed il suo film (non è certo compito nostro fornire giustificazioni), quanto piuttosto per mettere in risalto le doti di un regista  (e direttore della fotografia, non dimentichiamolo) davvero dotato e alquanto al di sopra della media nazionale, alle prese con un discorso nuovo e  in parte diverso da quello che lo aveva reso (più o meno) noto.

 

Se da un lato il film trasuda da ogni fotogramma la ormai proverbiale sicilitudine sciasciana (è in fondo una storia che rimanda alla verghiana e atavica lotta dei derelitti per la roba), dall’altro non ci vuol molto a capire che la Sicilia, pur così presente nella filmografia del regista, ci mette un attimo a diventare parabola extrageografica di una condizione disperata, di una grottesca lotta per la sopravvivenza che non lascia scampo e passa sopra a tutto e tutti, siano essi bambini morti di mafia o sottoproletari morti di fame. La vicenda ruota attorno alla famiglia Ciraulo, palermitani di una Palermo metafisica (non a caso ricostruita a Brindisi), in cui un inaspettato benessere (un risarcimento di duecento milioni pagato dallo Stato per la morte accidentale della figlia in un regolamento di conti mafioso) diventa motivo scatenante di una tragedia che, cancellato ogni sentimento umano (e qui è forte il legame con la filmografia precedente del regista), arriva ad annientare un equilibrio già di per sé assai precario. Nicola Ciraulo, il capofamiglia (o almeno quello che sembra essere il capofamiglia, fino al rovesciamento finale, in cuie-stato-il-figlio emerge un matriarcato non inusuale in determinati ambienti legati alla criminalità), confonde la ricchezza con l’ostentazione di quest’ultima, come a dire che non si è veramente ricchi se gli altri non se ne accorgono.

 

Non a caso decide di investire i soldi ricevuti (a causa di una tragedia che è sempre più lontana man mano che il denaro s’avvicina) in uno dei simboli massimi dell’ostentazione pecuniaria: il macchinone, quella Mercedes che avrebbe fatto capire a tutti il salto di qualità della famiglia. Ciprì, dunque, basandosi sul romanzo di Roberto Alajmo, costruisce una storia che è quasi una parabola al contrario, e mette in scena una realtà astratta, immobile e fatiscente, raccontata con toni da commedia grottesca (il protagonista, interpretato da Toni Servillo richiama molto il Nino Manfredi di "Brutti sporchi e cattivi" di Scola), andando a ripescare un genere che oggi non gode di grande fortuna nel panorama cinematografico nazionale (troppo impegnato a mantenere la giusta distanza da tutto e tutti per pensare solo lontanamente a strumenti “eversivi” come lo humour nero e il politicamente scorretto). Il tutto è messo in scena con una certa maestria: la fotografia (dello stesso regista) è davvero notevole, i personaggi si muovono in ambienti che, se pur smorzando un poco la desolante e post-apocalittica ambientazione dei film precedenti, sono carichi di una forza visiva che ancora riesce ad impressionare, la regia non risparmia alcune finezze.

 

Il problema del film, però, è prima di tutto estetico: se nella filmografia precedente si rimaneva sbalorditi per la radicalità delle immagini e dei temi, in questo, quelli che sono in fondo gli stessi argomenti vengono stemperati in una ricerca dell’immagine che, letta in profondità, rischia di essere di maniera. In molti punti, inoltre, sembra che il regista venga preso da un certo “pudore” nella narrazione, come se si fermasse un secondo prima di un affondo finale e definitivo; in alcuni casi questa estetica del sottointeso funziona anche (come i dialoghi con lo strozzino che vengono regolarmente coperti da un treno in corsa), e' stato il figlioaltre volte lasciano lo spettatore con un vuoto che non si riesce a colmare. Si badi bene: nessuno si aspettava che nel primo film “mainstream” (per così dire) di Ciprì potessimo ritrovare dei nuovi Giordano, Abbate, Paviglianiti e compagnia (anche se uno dei personaggi più riusciti è quello dell’avvocato interpretato da Mauro Spitalieri, il Barone di Cammarata de "Il ritorno di Cagliostro"), ma certo un po’ più di “cinismo”, soprattutto visivo, ce lo saremmo aspettato, invece di andarlo a cercare frantumato qui e là nel film. In fondo la questione è assai semplice: essendo stati (bene) abituati dal regista ad un cinema altro, ad un linguaggio forse tra i più innovativi del cinema (non solo italiano) degli ultimi vent’anni, di fronte ad un “semplice” buon film non possiamo non rimanere un poco delusi.

 

Luca Verrelli

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