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19 Gennaio 2013

Django Unchained speciale: il ritorno di Tarantino Quentin Tarantino

2013 - USA

django unchained manifesto

Quentin Tarantino è tornato: atteso al varco di uno dei generi che da sempre lo hanno maggiormente affascinato ed ispirato, anche quando girava film di tutt’altra ambientazione, il regista centra il proprio obiettivo e regala al pubblico uno spaghetti-western politico e iperviolento, condito in salsa blaxploitation e animato da uno spirito d’iperrealismo da feuilleton, che porta avanti una ben precisa poetica iniziata con i due film precedenti ("Death Proof" e "Bastardi Senza Gloria"), che ha aperto un nuovo corso nella filmografia del regista e che è ormai arrivata alla piena maturità.

 

La storia

Due anni prima che la guerra di secessione aprisse quel lungo processo che determinerà la fine della schiavitù (per chi volesse ripassare un poco di storia c’è l’ultimo film di Spielberg, "Lincoln", che ricostruisce parte della vicenda), nel Sud degli Stati Uniti lo schiavo Django viene liberato dal dentista-cacciatore di taglie King Schultz. Lo scopo del dentista è che l’ex schiavo lo guidi alla ricerca dei fratelli Brittle, banda di ricercati sulle cui tracce si muove il bounty killer. Tra i due nasce però un’intesa che oltrepassa l’aiuto estemporaneo fornito dall’ex schiavo e li porta a restare insieme e a lavorare in coppia come cacciatori di taglie. I due stipulano un patto: se Django rimarrà col dottore a dare la caccia ai ricercati durante l’inverno, in primavera il bounty killer aiuterà l’ex schiavo a ritrovare e liberare sua moglie, che era stata venduta al proprietario della più pericolosa delle piantagioni del Sud, Candyland.

 

djangocoverIl film è strutturato in due parti ben distinte: la prima in cui la coppia Django-Schultz impara a conoscersi e in cui l’ex schiavo, come nei più classici romanzi di formazione, acquista la consapevolezza del suo nuovo stato di uomo libero. Nel secondo segmento Django Freeman si trasforma nell’(anti-)eroe, nel Sigfrido nero che dovrà liberare la sua Brunilde Von Shaft (il miglior nome mai coniato in un film di Tarantino, che è capace di mescolare Richard Roundtree e la futura eroina di Wagner), dalla prigione di Monsieur Candie, lo spietato schiavista pseudo-dandy senza scrupoli padrone di Candyland  (forse il miglior personaggio del film, interpretato da un Leonardo di Caprio molto in parte, che regala alla vicenda un villain davvero notevole).

 

"Django Unchained" al microscopio: lo spaghetti-western 'politico' di Tarantino

Ha affermato Tarantino in una recente intervista, spiegando il perché abbia rispolverato questo vecchio personaggio del western all’italiana, che Corbucci (regista del "Django" originale, del 1966) stava a Sergio Leone come Howard Hawks a John Ford, equazione che seppure non spiega fino in fondo le dinamiche di un genere che ha avuto infinite chiavi di lettura, perlomeno chiarisce lo spirito con cui Tarantino s’avvicina al western: non cerca la leggenda, l’epica, la frontiera, i grandi spazi, la creazione o la reiterazione del mito (il complesso rapporto tra il cinema di Leone e quello di Ford, ma anche la dialettica tra due film-simbolo del genere: "Sentieri Selvaggi" di Ford e "Un dollaro d’onore" di Hawks). Niente di tutto questo: guardando a Corbucci (ma c’è ampio spazio anche per Leone in realtà) Tarantino s’ispira al lato politico dello spaghetti-western, quando in Italia si usava il western Django-Unchainedper parlare (anche) d’altro (oltre a Django di Corbucci si potrebbe citare "Requiescant" di Lizzani, per fare un esempio tra i titoli più riusciti e più “militanti”).

 

Anche se spesso il discorso politico di questi film soffriva di un’ingenuità oggi forse un poco datata, di una tipizzazione caratteriale da romanzo d’appendice socialista, il discorso che volevano portare avanti era ben chiaro. Un cinema politico che prendeva più allo stomaco che alla testa, ma pur sempre politico, e in un certo senso più sincero e genuino di molti engagement apparentemente più studiati e riconosciuti, invecchiati assai peggio di alcuni spaghetti western. Mai come questa volta, però, Tarantino piega il genere alla propria poetica distaccandosi ben presto da qualsiasi fonte di ispirazione, e inserendo il proprio discorso politico (assai differente, come è ovvio, da quello dei suoi archetipi) in un modello che (come era stato per il film di guerra) si presta assai bene ad accoglierlo. Con "Django Unchained", infatti, il regista continua il discorso iniziato con "Bastardi Senza Gloria": riscrivere la realtà sotto forma di romanzo d’appendice (o di cinema di genere, è la stessa cosa).

 

È il grande potere del cinema (e Tarantino crede solo nel cinema): fornire – classicamente – la catarsi alla storia, un happy ending inaspettato e impossibile se non rinchiuso in un fotogramma, il lieto fine negato dalla Storia e concesso dal cinema. E in fondo ogni film di Tarantino è una riscrittura della realtà: Tarantino è antirealista non (solo) perché i corpidjango-unchained-whysoblu sotto i colpi delle pistole esplodono come granate e inondano i pavimenti con ettolitri di sangue; Tarantino è antirealista perché sa, con una coscienza che pochi altri registi hanno, che cos’è il cinema. Il cinema è un luogo (uno “spazio”) dove gli ebrei possono andare a caccia di nazisti, dove le fanciulle inseguono e uccidono i maniaci ("Death Proof"  è il capostipite di questo nuovo corso del cinema del regista), dove i neri degli Stati Uniti schiavisti possono uccidere i bianchi ed incassare una ricompensa per il loro lavoro, possono andare a cavallo e sedere a tavola coi latifondisti del cotone.

 

Il cinema secondo Quentin Tarantino

Per Tarantino insomma il cinema è assai meglio della realtà, e ogni suo film è permeato profondamente da questa sfiducia nei confronti del reale stesso. Sta qui la grande lezione politica del cinema di Tarantino, che è carica di un pessimismo di fondo e di una consapevolezza molto forte: il cinema è un luogo dove ci si può prendere una sana rivincita, e cambiare la Storia  non è solo un gioco (Bastardi Senza Gloria ne è un esempio potentissimo), non è solo un divertissement cinefilo (è un’ingenuità critica enorme considerare Tarantino soltanto un regista che gioca col cinema), ma nasconde una visione del mondo tanto precisa quanto amara. Tarantino ha colto a pieno l’essenza sovversiva del cinema (e della letteratura) di genere e l’ha trasportata verso vette finora inesplorate, fornendogli una coscienza politica (e filosofica) che molto spesso i suoi modelli non avevano o non sapevano fino in fondo di avere. È un’utopia cinematografica, quella tarantiniana, che trova un terreno assai fertile nello spaghetti-western, fornendo una lettura assai più politica delle pellicole cui si ispira. Non si tratta, però, di sola ispirazione: ancora una volta, e alla luce di tutto questo, sarebbe il caso di Django-Unchained-Foxx-DiCaprioliquidare definitivamente l’idea di un Tarantino che prende tutto in prestito, che cita tutto e non inventa niente. La poetica di Tarantino è personalissima, assai colta e per nulla derivativa. 

 

 

Scene cult

Tarantino – come se ce ne fosse bisogno – dimostra di essere quel grande narratore che è, e il suo nuovo film abbonda di momenti fatti per restare:  

1) il dialogo tra i membri del Ku Klux Klan sulla scarsa qualità dei loro cappucci, che non permettono di vedere dove si sta andando;

2) la “Cura Ludovico” involontaria del Dottor Schultz che associa i ricordi dello schiavo massacrato dai cani con la musica di Beethoven suonata da un’arpista in casa di Candie (ci si aspetterebbe di sentire lo sfogo di Alex de Large: “Usare Ludovico Van così, lui non ha mai fatto male a nessuno! Beethoven ha solo scritto musica!”);

3) Leonardo di Caprio col teschio dello schiavo di suo padre che entra anche lui nella lunga lista dei monologhi cult del cinema tarantiniano (con un monologo già di maniera, ma è peccato veniale);

4) la taglia su E. S. Porter (omonimo del regista-pioniere, nel 1903, di "The great Train Robbery": il cinema americano è nato col western, e i registi di oggi ancora lo “ricercano”, vivo o morto; ma Porter è regista anche di un adattamento di "La capanna dello Zio Tom");

5) e poi naturalmente il cameo di Franco Nero, Django nel film di Corbucci, che incontra e in un certo senso passa il testimone a Jamie Foxx, che lo raccoglie ed è un degno erede dell’attore italiano.

 

 

 

quentin-tarantinoFilmografia di Quentin Tarantino

Le iene (Reservoir Dogs) (1992)
Pulp Fiction (1994)
Four Rooms, episodio L’uomo di Hollywood (The Man from Hollywood) (1995)
Jackie Brown (1997)
Kill Bill vol. 1 (2003) / Kill Bill vol. 2 (2004)
Sin City (2005) (Special guest director nell’episodio “Un’abbuffata di morte”)
Grindhouse – A prova di morte (Grindhouse – Death Proof) (2007)
Bastardi senza gloria (Inglourious Basterds) (2009)
Django Unchained (2012)

 

 

Luca Verrelli

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