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20 Maggio 2012

DARK SHADOWS Tim Burton

2012 - USA

dark shadows posterLa premiata ditta Burton-Depp (e Bonham Carter) torna al cinema con "Dark Shadows", adattamento cinematografico di una fortunata horror-soap-opera degli anni Sessanta. Tornano sullo schermo le vicende di Barnabas Collins, vittima della maledizione della bella strega Angelique, che, respinta sentimentalmente, ha trasformato lui in vampiro, dopo aver eliminato la sua promessa sposa e iniziato un’azione di annientamento economico e sociale della ricca famiglia Collins. Dopo quasi due secoli di sonno forzato (il prologo è ambientato alla fine del Settecento) Barnabas tornerà a calcare le strade del mondo (che nel frattempo si sono lastricate di asfalto) e ritroverà i Collins del 1972, perseguitati ancora dalla bella strega, e in ristrettezze finanziarie nonché familiari. E questa volta Barnabas dovrà riuscire a salvare, insieme alle sorti della famiglia, la bella Vicky, romantica figura che ricalca le fattezze del suo vecchio amore, caduta anche lei, ovviamente, sotto le mire della strega.

 

Burton tenta l’affresco corale portando sulla scena una stramba famiglia, vincolata da una propria etica di clan che fonde il familismo “alla rovescia” della famiglia Addams con quell’etica protestante  e lo spirito del capitalismo che Max Weber poneva alla base della società economica moderna: e non a caso la lotta tra Barnabas e Angelique parte come schermaglia amorosa e si trasforma quasi subito in scontro per il salvataggio dell’azienda di famiglia, con Angelique che passa da Strega per (non) amore a squalo della finanza “di paese” determinata ad affossare economicamente la famiglia Collins. Ma in questa coralità qualcosa non funziona: i troppi buchi nella sceneggiatura riducono il racconto deldark shadows burton film, nel suo svolgersi, a focalizzarsi principalmente sul personaggio di Depp (ormai sempre più vittima del proprio personaggio extracinematografico, e trasformatosi ormai, temo irreversibilmente, da attore in maschera: qui in una sorta di Jack-Sparrow-mani-di-forbice), perdendo per strada personaggi anche fondamentali che scompaiono per buona parte del film (un esempio su tutti il personaggio di Vicky, che da apparente protagonista della vicenda viene di fatto dimenticato per quasi tutta la seconda parte del film), trasformando un lavoro potenzialmente corale nell’assolo di un solo attore.

 

I toni che prevalgono sono quelli della commedia, fondati principalmente sull’attrito temporale tra le maniere settecentesche di Barnabas e la nuova epoca in cui torna a vivere, e le trovate a volte funzionano, anche se la banalità è sempre dietro l’angolo. Una su tutte: Barnabas che inveisce contro il televisore che trasmette le immagini di una cantante gridando alla stregoneria e tentando di far uscire la donna dall’apparecchio aprendolo da dietro (uno strano cortocircuito cinematografico, del tutto involontario, che fonde serie A e serie Z: qualcuno ricorda la scena di “Bingo Bongo” in cui Adriano Celentano faceva esattamente la stessa cosa tentando di far uscire dal televisore l’immagine di una banana? Si fa per scherzare, ovviamente: i cinefili togati non me ne vogliano per questo arditissimo, e forse per alcuni sacrilego, collegamento...). I modi della narrazione sono quelli (un po’ esausti) del pastiche cinefilo: il vampiro di Depp ricorda dark shadows tim burtonmolto da vicino il Nosferatu impersonato da Klaus Kinski nel film di Herzog (ma sfiorandone appena la romantica fragilità); la strega Eva Green (che comunque resta il personaggio più riuscito, oltre che il più affascinante, del film) sfodera la sua sensualità di porcellana con modi che ricordano molto da vicino, specie nel finale, quel piccolo gioiello horrorcomico che è “La morte ti fa bella” (non rinunciando ad un  improbabile fiotto di vomito verde stile “L’esorcista”); la bella e dolce Vicky richiama troppe eroine burtoniane presenti in altri film del regista, così come burtoniane doc sono certe ambientazioni estremamente ed esageratamente “pop”.

 

I punti in cui queste contaminazioni funzionano di più sono quelli in cui Burton gioca con un immaginario assolutamente estraneo alla sua poetica: il mondo hippy o alcuni classici della cultura popolare degli anni Settanta (Barnabas che legge Love Story o che apprezza l’andamento, a suo dire, shakespeareano di The Joker della Steve Miller Band). La colonna sonora, per quanto ruffiana possa essere (una sorta di greatest hits della musica anni Sessanta-Settanta, dall’hard rock a alla disco), è gestita con gusto e non riesce ad essere quasi mai fine a se stessa (bellissimo l’uso di Night in a white satin del MoodyEva Green Blues sui titoli di testa: quanto di meno burtoniano mai girato da Burton). Rimanendo sempre in ambito musicale, crea uno strano effetto il cameo di Alice Cooper che con la faccia (e le rughe) di oggi si esibisce in un playback con la voce di allora (cameo, quest’ultimo, che fornisce il pretesto per una delle battute più divertenti del film, almeno per i fan di mr. Furnier). Un film, dunque, riuscito solo a metà in cui le trovate visive e certi ritmi da commedia grottesca (ma sono lontanissimi i tempi di “Beetlejuice”) non riescono a compensare una sceneggiatura debole che affossa i suoi stessi personaggi, trasformandoli da potenziali protagonisti d’una storia corale a spalle appena abbozzate dell’ennesima prova di recitazione sopra le righe di Johnny Depp.

 

Luca Verrelli

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