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28 Aprile 2013

Caterpillar – United Red Army Koji Wakamatsu

2013

wakamatsu raro videoRarovideo propone in cofanetto due opere recenti del regista giapponese Koji Wakamatsu, cineasta per cui l’appellativo “di culto” non è una semplice e posticcia etichetta di comodo. "Caterpillar" e "United Red Army", due pellicole con molti elementi in comune, sono il punto di arrivo di una carriera registica sterminata (centosei titoli all’attivo), iniziata negli anni Sessanta con i “Pink Movies” (una sorta di mix tra cinema d’avanguardia, pulp, soft-porno ed exploitation: un titolo su tutti "Embrione" del 1966) e continuata per quattro decadi, interrotta solo dalla tragica morte del regista avvenuta lo scorso anno. Cattivo maestro per antonomasia Wakamatsu è un regista che non conosce la parola compromesso, nel cui cinema convivono e fanno da asse portante la violenza, il corpo (e dunque il sesso) e la politica, scandagliati nelle loro più profonde e contorte implicazioni sociali e psicologiche.

 

 

CATERPILLAR

Caterpillar, film del 2010, è un breve quanto fulminante apologo che si scaglia violento contro l’ideologia nazionalistica giapponese, una fiaba nera e kafkiana in cui la mutazione e mutilazione del corpo diviene metafora di un paese tutto, devastato da una guerra (il secondo conflitto mondiale) eppure bramoso di mandare incessantemente nuova carne al macello. Concetti chiave della cultura imperiale giapponese come l’eroismo, il patriottismo, il maschilismo e l’onore vengono rappresentati nella loro distorsione estrema, e smascherati nel loro effettivo valore in un grottesco e mai così diretto atto d’accusa. Tadashi Kurokawa torna dalla guerra al villaggio natale orrendamente mutilato, ridotto ad una larva d’uomo (il caterpillar, bruco, del titolo), un tronco umano privo di tutti e quattro gli arti. Sarà compito della moglie occuparsi di lui, delle sue funzioni vitali ormai ridottewakamatsucaterpillar_21 all’essenziale, una sopravvivenza fatta di bisogni primari (il cibo, le funzioni corporali e il sesso). È la fine di un eroe, anzi, è la fine del concetto stesso di eroismo, messo in discussione e demolito fin dalle fondamenta.

 

Il comportamento del militare in guerra non è stato dei più cristallini (il film si apre su una scena di stupro, perpetrato dal protagonista poco prima di finir mutilato da un’esplosione), e la consacrazione eroica del reduce (che si riduce in periodiche uscite di casa trasportato dalla moglie in carriola, e a qualche manifestazione di retorico patriottismo rurale) diventa un farsesco teatrino che altro non fa che amplificare la situazione grottesca della vicenda. Il resto dell’esistenza del protagonista si svolge in una stanza, tra il piccolo materasso dove il mezzo uomo vive disteso, un ritaglio di giornale che celebra l’eroismo del soldato e un ritratto dell’imperatore Hiroito (il sovrano che alla fine della guerra, con un Giappone devastato e ridotto in macerie, rinuncerà al suo status di divinità), che sembra guardare dall’alto, inerme, il risultato della propria politica. Una situazione claustrofobica (come sempre nel cinema di Wakamatsu) in cui la moglie, maltrattata, nonostante tutte le koji-wakamatsucure, da ciò che resta del marito (così come era sottomessa prima della guerra) sarà la prima a comprendere l’orrore estremo di una situazione e la condizione di un paese sull’orlo della distruzione.

 

Il film, nella sua estrema stilizzazione metaforica, è un’allegoria perfetta di una nazione intera, mutilata per ragioni ideologiche, devastata da un nazionalismo che continua a mandare messaggi rassicuranti (la radio che costantemente riporta notizie di battaglie vinte e di soldati eroici), consapevole di aver sacrificato al dio della guerra un’intera generazione. Cinema eversivo ed estremo come pochi, quello di Wakamatsu, che riesce a sublimare l’orrore quotidiano in orrore collettivo e generale (non a caso il film si chiude sui funghi atomici di Hiroshima e Nagasaki), in una rappresentazione che non volta mai la testa di fronte a nulla, che mostra tutto (le grottesche scene di sesso tra il tronco d’uomo e sua moglie) e che trascende anche il cinema antimilitarista e pacifista (per affinità di tematiche non si può non pensare a E Johnny prese il fucile di Dalton Trumbo, ma il film è anche una versione “da camera” di Il Sole di Alexandr Sokurov), fino a diventare un atto di (auto)analisi collettiva di una nazione intera.

 

 

UNITED RED ARMY

“United Red Army” (2007), ripercorre la storia dell’Armata Rossa Giapponese, costola estremista del movimento studentesco nipponico, caratterizzata da una violenta quanto rigorosa impalcatura ideologica, destinata a degenerare nel giro di pochissimo tempo. Il film è diviso in due parti ben distinte: la prima, grazie anche alle molte immagini di repertorio, ricostruisce la storia del movimento studentesco, tra contrasti interni, scontri con le forze dell’ordine e scissioni in vari gruppi più o meno organizzati, che culminarono nella fondazione dell’Armata Rossa Giapponese. La seconda parte focalizza inveceunited army l’attenzione su una cellula impazzita dell’armata, ritiratasi in un campo d’addestramento sulle montagne, che mise in atto un’intransigente visione della lotta armata e dell’impegno politico che la condurrà gradualmente ad una folle implosione dettata da un rigore ideologico talmente forte da portare i membri del gruppo a sterminarsi a vicenda in nome dell’“autocritica” e di una supposta e sempre più irrazionale interpretazione della “verità rivoluzionaria”, per cui chi non applicava il credo rivoluzionario alla lettera era punibile anche con la morte. L’avventura di questo gruppo armato terminerà nel noto assedio del monte Asama, in cui cinque membri dell’armata, sfuggiti all’arresto, resisteranno alla polizia asserragliati in un albergo per dieci giorni.

 

Wakamatsu nel film racconta un’intera generazione (le belle musiche “d’epoca” di Jim O’Rourke, mostro sacro dell’indie d’avanguardia statunitense e grande ammiratore del regista, contribuiscono assai bene a ricreare gli ambienti), che poi è la sua stessa generazione, e mette in scena – con occhio lucidissimo – la degenerazione di un movimento che arriva ad auto-consumarsi. L’intransigenza della teoria prende il sopravvento sulla realtà (“dov’è la rivoluzione?” griderà un membro dell’armata poco prima di morire sui monti), e la preparazione della rivoluzione è talmente forte e folle da far dimenticare la rivoluzione stessa, diventando un gioco al massacro autoreferenziale; tant’è che allo scontro diretto arriverà solo un piccolo gruppo di superstiti alla mattanza dell’addestramento, ma sarà ormai troppo tardi. È questo, inoltre, il film in cui il regista chiude i conti con la sua esperienza nel cinema politico (forse il titolo più noto è Armata Rossa/Fplp - Dichiarazione di guerra mondiale, documentario girato in Palestina UNITED ARMYnel 1971), e in cui riesce a guardare i fatti con un occhio al tempo stesso distaccato e militante, riconoscendosi negli ideali rivoluzionari e denunciandone gli eccessi di rigorismo.

 

In questo film il regista riesce ad essere eversivo e obiettivo allo stesso tempo, a fare ricostruzione storica e denuncia, ad essere emotivamente coinvolto con i fatti e a ricostruire gli eventi con la lucidità di chi ne ha conosciute le conseguenze. Nel firmare quello che è il proprio capolavoro della maturità, Wakamatsu riassume in un film-fiume (di quasi tre ore e mezzo) tutta la sua poetica: le implicazioni politiche della violenza, lo scontro tra utopia e realtà, l’assoluta attenzione per i corpi (cinematografici) e le loro mut(il)azioni. La parte del film ambientata nel campo d’addestramento è la summa della riflessione sulla violenza del regista: isolata in un ambiente claustrofobico e orrorifico, in cui squarci di luce accecante si affiancano a momenti d’oscurità assoluta, arriva a picchi di insensata insostenibilità, che mai però diventano gratuiti o fini a loro stessi. In Wakamatsu la violenza ha sempre una forte valenza politica, è la cartina al tornasole che indica lo stato di avanzamento (o di decomposizione) di una società. E d’altronde era il regista stesso che affermava, già negli anni Sessanta, che “la violenza, il corpo e il sesso sono parte integrante della vita”.

 

Luca Verrelli

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