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6 Agosto 2012

Anvil! The story of Anvil Sacha Gervasi

2008-2012 - Canada

anvil thestory of anvilIl mondo della musica è pieno di meteore, di fenomeni momentanei e passeggeri, di one hit wonders che dopo il warholiano quarto d’ora di celebrità, tornano nell’anonimato da cui erano venuti. In un certo senso la cosa è anche rassicurante (il mondo non può essere pieno di geni) nella sua darwiniana crudeltà. Se gli Anvil fossero stati soltanto una meteora probabilmente la loro storia non sarebbe stata di certo così interessante, tanto meno così toccante. “Anvil! The story of Anvil” è un documentario che ripercorre trent’anni di storia della band heavy metal canadese, partendo da un dato di fatto tanto preciso quanto sconcertante: gli Anvil, pur avendo tutte le carte in regola per diventare delle rockstar al pari di altre band loro simili  e coeve (dagli Whitesnake a Bon Jovi, fino ai Metallica), non ce l’hanno mai fatta, non sono mai riusciti a sfondare. Per loro il rock’n’roll non è stato sinonimo di successo, di soldi, di donne, di feste e di eccessi. Tutto il contrario: il rock’n’roll si è accompagnato ad una serie di fallimenti che hanno, nel corso del tempo, affossato la band. Non ci sono stati eventi traumatici, litigi, morti o tragedie varie, che hanno impedito alla band di entrare nel gotha dell’heavy metal; semplicemente il successo, quello vero, non ha mai bussato alla loro porta. 

 

Eppure, anche quando la definitiva affermazione non è arrivata, la band ha continuato a fare musica tra mille difficoltà, non smettendo mai di credere nella possibilità, forse un giorno, di sfondare. Ma non avevano fatto i conti col tempo: gli Anvil sono una band che suona insieme da tre decenni, e che in tutti questi anni ha cercato di diventare un fenomeno di massa; sono l’esempio vivente di come il sogno del rock’n’roll può trasformarsi (complice il tempo che scorre e cieco divora tutto) in una sorta di limbo da cui pare impossibile venir fuori. Il documentario ripercorre la storia di questo sogno, portato avanti anche quando il cambio epocale e di gusto non lasciava neanche immaginare unaanvil-rocks cosa del genere. Quali sono state, dunque, le cause del mancato successo della band canadese? Non è facile rispondere, e neanche il documentario sembra volerlo fare. Eppure le premesse c’erano tutte: negli anni Ottanta avevano calcato gli stessi palchi di band che sono diventate icone di un’intera generazione; i loro dischi (almeno i primi tre) sono diventati col tempo dei classici dell’heavy metal; il rispetto di cui godevano nell’ambiente era sincero e spassionato (e nel film ad avvalorare il fatto ci sono le testimonianze di gente come Lemmy, Lars Ulrich o Slash). Qualcosa però è andato storto: il successo non è arrivato e gli Anvil sono stati dimenticati. Il documentario prende avvio dalle vicende della vita quotidiana dei membri del gruppo (in particolare dei componenti storici, Steve Kudlow e Robb Reiner), e, credetemi, fa uno strano effetto vedere “Lips”, cantante e chitarrista della band, lavorare per un servizio di catering in una Toronto coperta di neve, caricare il furgone di contenitori di cibo e consegnarli in giro per la città.

 

Il film getta una luce diversa sul mondo del rock’n’roll, quando mostra la band, impegnata in un fallimentare tour europeo, suonare nei peggiori locali del vecchio continente tra pubblico scarso (venti persone in un posto che potrebbe contenerne mille) e disorganizzazione generale. Non viene subito in mente la vita della rockstar quando ritroviamo Lips e compagnia in una stazione di un paese di provincia dell’Europa dell’est mentre aspettano un treno regionale (niente tour bus, macchine con autista e lussi del genere) che li porti nella città in cui è previsto il prossimo concerto. Eppure questi cinquantenni affrontano tutte le difficoltà dovute ad una carriera mancata con una dignità e una voglia di fare che è difficile ritrovare in musicisti ben più famosi (e ricchi) di loro. Al di là della musica (non bisogna essere fan della band per apprezzare il documentario), il film è una bella riflessione sul tempo che passa, e sulla caparbia volontà di sconfiggerlo anvilattraverso l’arte, cercando ostinatamente (e fuori tempo massimo) di avere la possibilità – una possibilità che ha tutto il sapore di un’ultima chance –  di fare quello che davvero si ama. “The story of Anvil” è un film che travalica il cinema-verità, e mette in scena l’autenticità stessa, i sentimenti veri; è un reality show nel senso buono del termine. I fallimenti sono veri, le lacrime versate sono sincere, e la speranza è davvero – e mai frase fatta s’è rivelata più appropriata – l’ultima a morire. Più che un film che analizza le cause del fallimento del progetto (che potrebbero essere, in sintesi, la mancanza di una struttura organizzativa seria alle spalle della band, dal management alla casa discografica), il documentario si concentra sugli effetti, sottilmente devastanti, di questa catastrofe sulle vite private dei protagonisti, e sulle loro famiglie. I musicisti e gli altri intervistati (per lo più loro familiari) sono talmente sinceri davanti alla macchina da presa da portare lo spettatore a partecipare della loro frustrazione, senza generare però sentimenti di compassione nei loro confronti. La loro è stata una vita dura, una vita fatta di sogni infranti, ma questi sogni sono sempre stati affrontati a testa alta, rialzandosi ogni volta dopo la caduta e ricominciando dal basso.

 

Tutto questo emerge alla perfezione nel film. Gli Anvil non sono un gruppo di “sfigati fuori tempo” che ancora credono di fare successo col metal stile Eighties, sono bensì dei nobili perdenti che hanno saputo e sanno ancora affrontare la sconfitta pur non rinunciando al sogno. Una sincerità del genere è davvero ammirevole, ed è grande merito del regista averla saputa trattare con il giusto linguaggio, entrando all’interno della vita dei protagonisti senza essere invadente. È un film che va al di là della documentazione celebrativa di una band (anche perché gli Anvil, diciamolo, non hanno molti fasti da celebrare), o della rappresentazione della vita quotidiana di una rockstar (alla The Osbournes per intenderci). Probabilmente solo un’altro documentario su un gruppo rock possiede laanvil stessa forza comunicativa (e valenza cinematografica) nel saper rappresentare una crisi, se pur da un punto di vista diametralmente opposto. Mi riferisco a “Some kind of monster”, film che ricostruiva la crisi dei Metallica dopo l’abbandono di Jason Newsted. Ma in quel caso l’atmosfera, se pur amara, partiva dal presupposto che la crisi era un effetto del grande successo della band, e i loro erano problemi che in fondo partivano dall’essere delle rockstar. Nel caso degli Anvil ci si trova nella situazione opposta: rockstar non lo sono e (molto probabilmente) non lo saranno mai, e il fondamento della crisi nasce proprio da questa consapevolezza. La loro storia diventa una metafora sul rimpianto, sulle occasioni mancate e allo stesso tempo sulla caparbietà e la volontà di vedere finalmente realizzati i progetti di una vita: il film chiarisce cosa significa passare tutta la vita ad aspettare di diventare una rockstar, e non smettere di sperarci neanche quando il tempo ha staccato l’ultimo biglietto per un treno che è stato definitivamente perduto.

 

Luca Verrelli

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