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29 Febbraio 2012

Andy Warhol Vinyl (1965)/The Velvet Underground & Nico (1966)

2004 - America

Fa uno strano effetto vedere una trasposizione cinematografica di "A clockwork orange", il romanzo di Antony Burgess, che non sia quella kubrickiana. L’effetto è ancora più strano una volta saputo che il regista del film è Andy Warhol. Nel 1965 Andy Warhol gira "Vinyl", uno dei primi film del "secondo periodo” della sua filmografia, pellicole in cui, dopo le prime, “statiche” (come "Sleep" o "Empire") inizia a comparire una minimale forma di “recitazione” o abbozzi di sceneggiatura (primo film di questo periodo potrebbe essere"Couch", del 1964). Protagonista del film è uno dei corpi-feticcio dell’immaginario warholiano, Gerard Malanga, accompagnato da altre sterlettes delle Factory, e contornato da una comparsa d’eccezione come Edie Sedgwick.

 

A detta di Warhol stesso è molto più facile parlare dei suoi film piuttosto che vederli. Essendo infatti la maggior parte delle pellicole dell’artista fondate sulla reiterazione continua (e continuata) della situazione normale (in parallelo dunque con la sua attività grafica) lo spettatore viene a perdere gli agi che di solito il cinema (tradizionale) concede a chi lo guarda, primo tra tutti l’eliminazione del tempo morto (grazie alla sintesi del montaggio, totalmente assente nei film di Warhol, salvo sotto forma di giuntura delle bobine di pellicola girate). Nei film di Warhol il tempo morto, lo scorrere del tempo, la banale quotidianità qualunque essa sia (dal sonno, al sesso, al cibo) è posta in primo piano, come mai il cinema aveva fatto fin dalle sue origini, o almeno dai tempi in cui il cinema ha iniziato a raccontare storie di finzione.

 

VINYL

Vinyl  è il primo film di Warhol ad avere un’impronta di narratività ben definita, nel suo essere un sunto del romanzo di Burgess; e se in parte il cinema dell’artista si apre a soluzioni (lontanamente) più canoniche, la storia è trattata con molti degli espedienti registici dei precedenti film realizzati dalla Factory, primo fra tutti l’uso della camera fissa e del piano-sequenza unico. La recitazione è pressoché improvvisata e “non professionale” (in una radicalizzazione dello stile-Cassavetes), ben resa nel recente doppiaggio italiano, che affida (come già aveva fatto Pasolini curando il doppiaggio dei film di Paul Morrisey) le voci a doppiatori non professionisti. Unico movimento di macchina ammesso nel film è lo pseudo-movimento della zoomata (che è movimento ottico e illusorio), e il film si apre su un primo piano del protagonista che lentamente si allarga fino a rivelare l’ambiente della messa in scena (con una curiosa, quanto – temo – casuale analogia con la prima scena del film di Kubrick). Lo scenario è talmente angusto (è la Factory naturalmente) che i protagonisti sono quasi schiacciati l’uno sull’altro, la rappresentazione teatrale non ha bisogno di scenografie, la messa in scena risponde più che altro alle leggi di un caso soltanto minimamente organizzato.

 

Ad eccezione del primo movimento dell’obiettivo, la macchina, nella migliore tradizione warholiana, resta abbandonata alla propria immobilità oggettivante (si dice che il regista si allontanasse da essa, lasciandola girare nel suo immobile automatismo). È il gran paradosso del cinema di Warhol: la regia coincide con l’assenza del regista, la rappresentazione è lasciata all’occhio meccanico che riprende tutto quello che si oppone al suo campo d’azione (di visione), senza tagli, senza una sintesi, uno stream of consciousness in cui, anche in un film recitato (e con un minimo di sceneggiatura), non è previsto alcun tipo di “punteggiatura” a delimitare il necessario dal superfluo. Il film mette in scena il romanzo calandolo nelle atmosfere del teppismo metropolitano, destinate ad avere molto successo nell’iconografia rock’n’roll. Gerard Malanga è una sorta di James Dean underground, che nella sua spavalderia tra il biker e il sottoproletario esprime una carica (omo) sessuale tanto ingenua da sembrare costruita ad arte.

 

I complementi di scena sembrano prefigurare gli armamentari d’ordinanza dell’estetica punk, tra catene, giacche di pelle, abiti strappati e maschere da bondage. Un film d’attitudine “rock’n’roll” accompagnato da una colonna sonora che comprende Nowhere to run di Martha & the Vandellas, i Kinks e gli Isley Brothers (naturalmente con Shout). Ma al di là della musica sono le atmosfere sado-maso-teppistiche a rendere il film così crudo e secco: l’espressionismo di Burgess (splendidamente ripreso nel film di Kubrick) si asciuga in una rappresentazione brutale, una volta calato nei bassifondi di New York, quegli stessi bassifondi che avevano fornito materiale umano a molto cinema underground coevo o di poco precedente (un titolo su tutti "Flaming Creatures" di Jack Smith del 1963) e che di lì a poco saranno cantati da uno dei “figli” della Factory, Paul Morrisey, in un film come "Trash".

 

THE VELVET UNDERGROUND & NICO

"The Velvet Underground & Nico" si apre su un primo piano della chanteuse tedesca, accompagnato da un mantra di chitarre scordate in via d’accordatura, mentre Warhol gioca con la messa a fuoco, e la musica prende lentamente consistenza concreta. Una zoomata veloce rivela la band e dà inizio alla performance vera e propria: i Velvet Underground suonano seduti, seri e composti, con gli occhiali scuri d’ordinanza, e in mezzo a loro un bambino si guarda intorno (è Ari, figlio di Nico e di Alain Delon), forse un po’ spaesato. Da lì in poi la macchina da presa non si fermerà più, per tutti i settanta minuti circa di film. Operazione inconsueta per un film di Warhol, che ci aveva abituato alla rigidezza automatica dell’immagine statica. Nel filmare una band che suona, il regista scioglie l’immobilismo della macchina da presa lanciandosi in un vortice di zoomate velocissime, giochi di messa a fuoco e di profondità di campo (alternanza tra nitidezza e sfuocato), movimenti di macchina orizzontali e verticali di una velocità assolutamente “anti-cinematografica” che mettono a dura prova lo spettatore, in cui la scelta poetica però è ancora una volta quella di dar un minimo di organizzazione al caso. Warhol passa dall’assenza di movimento al movimento estremo.

 

È come se il regista si fosse reso conto che la situazione-musica non poteva essere filmata se non attraverso un uso assolutamente cinetico del mezzo cinematografico. Ma se la macchina da presa è quasi invasata nell’isteria dei suoi movimenti, la musica del gruppo, come a fare da contrappunto, propone un ipnotico e reiterativo mantra psichedelico, debitore delle sperimentazioni che il giovane John Cale aveva percorso assieme a La Monte Young, quasi in una reinterpretazione rock’n’roll delle performance del “Dream Syndicate”, basato anch’esso sulla ripetizione ossessiva di un solo accordo. Il film è del 1966, precedente dunque all’uscita del primo disco dei Velvet Underground (che vedrà la luce l’anno successivo) e fotografa un gruppo ancora impegnato nella sperimentazione pura, in cui l’apporto avanguardistico di John Cale ancora non si è stemperato nel songwriting di Lou Reed. Un film dunque fondato su un doppio livello visivo/sonoro: alla musica ripetitiva e sempre uguale a sé stessa (molto “warholiana” in fin dei conti) si oppone il contrappunto psichedelico della macchina da presa, il vorticoso uso, “dilettantesco” e avanguardistico allo stesso tempo, del mezzo cinematografico (ma certa tecnica del videoclip ha qui il suo precedente storico).

 

La musica continua ossessiva per tutta la durata del film, è chissà per quanto sarebbe andata avanti se la polizia non avesse bloccato la sinfonia di suono ("A symphony of sound" è il titolo di un disco-bootleg in cui circolava l’audio di questo video) messa in atto dalla band: l’interruzione della performance, infatti, è causata dall’irruzione nella Factory di alcuni agenti di polizia, che si ritrovano involontariamente (ancora una volta “warholianamente”) a essere attori nel film, e a fornire ad esso una sorta di finale, in una doppia rappresentazione della vita impressa sulla pellicola. La macchina da presa continua a riprendere anche dopo l’interruzione del concerto, si sofferma sulle chiacchiere, sugli sguardi, sulla situazione generata dal caso (e dal caos musicale); compare lo stesso Warhol nell’atto di fornire spiegazioni agli agenti. La vita della Factory riprende il suo scorrimento ma tutto continua ad essere impressionato sulla pellicola: anche il caso e il contingente diventano cinema.

 

Ancora una volta, dunque, il cinema torna ad essere registrazione della casualità degli eventi che si dispiegano davanti alla macchina da presa, il tempo morto successivo alla fine della musica non viene tagliato, diventa anch’esso parte integrante dell’opera cinematografica stessa.  "The Velvet Underground & Nico" ha una doppia importanza: da una parte immortala la band nata nella Factory nel suo momento più sperimentale (in una sorta di anticipazione live, ancora più avanguardistica, di un pezzo come Sister Ray), dall’altro offre un punto di vista leggermente diverso sulla filmografia di Warhol, mettendo in discussione il concetto di immagine fissa, senza però smentirlo, tentando semmai di rifondarlo attraverso il suo contrario, il movimento estremo.

 

Luca Verrelli
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