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13 Febbraio 2012

Jean Luc Godard One Plus One/Sympathy for the Devil

2006 - Inghilterra

One Plus One: 1968 (Sympathy for the Devil, Abkco Video)

One Plus One/Sympathy for the Devil  (4 ottobre 2006, Rarovideo)

 

Il ’68 segna una svolta nella carriera registica di Jean Luc Godard: svolta estetica che arriva dopo una lunga riflessione sul linguaggio e sul ruolo stesso del cinema, in una situazione politica come quella innescata dal maggio francese. I film girati in questo periodo portano nella loro stessa struttura questo vortice di contraddizioni, e ne fanno documenti indispensabili per (non) capire quegli anni. Proprio in contemporanea con i fatti del maggio parigino il regista si trova a Londra, per girare un film molto particolare, con protagonisti i Rolling Stones. E dal connubio tra musica e cinema verrà fuori il film forse più riuscito (pur tra mille problemi, di produzione soprattutto) tra quelli del periodo “sessantottino” del regista. "One plus one": uno più uno, ma anche uno contro uno. Il film è tutto basato su questa dicotomia, su una serie di opposizioni che in molti casi rivelano la loro fragilità strutturale, che dialetticamente non riescono a stare in piedi senza prevedere un terzo fenomeno che le sintetizzi.

 

Il film è basato sulle riprese fatte agli Olimpic Studios di Londra durante le session di registrazione della canzone Sympathy for the devil dei Rolling Stones. Lo studio di registrazione diventa dunque studio cinematografico (scopertamente: tante le luci a vista), gli Stones diventano (non) attori, la macchina da presa li segue attraverso le prove con lunghissimi (e bellissimi) piani-sequenza che restituiscono tutto allo spettatore, tempi morti compresi. I movimenti di macchina nello studio sono fluidi, la macchina da presa danza lentamente intorno alla band, ne cattura ogni singolo momento. Si aggira nell’enorme stanzone degli Olimpic Studios rivelandone tutti i particolari, non solo dunque il gruppo ma anche il “dietro le quinte”, i tecnici e il personale che assistono alla session (in cui man mano si definiva la struttura del pezzo), forse un po’ annoiati, distratti, non partecipi al momento della creazione. È interessante come un non-documentario come quello di Godard restituisca allo spettatore momenti di vita in studio così autentici (gli Stones sono abbastanza bravi ad ignorare la presenza della macchina da presa, anche se sorge il fondato dubbio che quella fosse una forma di recitazione). L’uso del piano-sequenza è la scelta obbligata se si vuole – sia pur lontanamente (cinematograficamente) – rappresentare la “vita”, se mai questa possa essere rappresentata, o comunque lo scorrere del tempo (il piano-sequenza che documenta la registrazione dei famosi uh-uh della canzone è una delle cose più belle girate da Godard in quegli anni).

 

Gli Stones si ritrovano ad essere (non) attori perfetti in questa esaltante rappresentazione della situazione-qualsiasi (il lavoro, il riposo, le chiacchiere, le prove), e del tempo (anche musicale: allo stesso tempo time e tempo, nell’accezione che questo ultimo termine ha in lingua inglese, e in gergo musicale). Alle immagini degli Stones in studio il regista affianca/oppone (ancora una volta One plus one) una serie di altre immagini cariche di significato. Innanzitutto una lunga intervista con Anne Wiazemsky (musa e compagna del regista in quel periodo), un altro lunghissimo piano sequenza, in cui vengono affrontati i temi caldi del Sessantotto (il Vietnam, le droghe, la cultura borghese, il comunismo…), che offre allo spettatore una visione del mondo fatta più che altro di domande e di dubbi, in cui le risposte dell’attrice (chiamata iconicamente Eva) si limitano ad una litania di “si” e di “no”, mentre le risposte “vere” (imposte?) sono suggerite dall’intervistatore stesso, cioè suggerite dal sistema stesso, tanto scontate da causare un moto di stizza da parte dell’intervistata che abbandona la scena quasi assecondando i luoghi comuni dell’intervistatore.

 

Agli Stones, inoltre, si sovrappongono una serie di suoni ed immagini che fanno da contrappunto al lavoro nello studio: una voce fuori campo legge alcune pagine di un romanzetto pulp; in una una porno-libreria piena di riviste e romanzi erotici, il proprietario legge ad alta voce brani del Mein Kampf, di cui offre trascrizioni ai clienti che acquistano libri da titoli del genere I gave my body to Hitler, in una messa in scena quasi teatrale (una satira dell’industria del divertimento, vista come un nuovo nazismo, culturale questa volta). Ancora, le immagini degli Stones sono intervallate da scene riguardanti un altro tema importante di quegli anni (e non solo): alcuni rappresentanti delle Black Panthers, confinati in un deposito di rottami espongono le loro teorie, leggono i “testi sacri” del pensiero “black power” (primo fra tutti, e non è un caso vista la presenza degli Stones, "Blues People" di Leroi Jones). Ed è sintomatico che il rappresentante delle Pantere Nere affermi che una delle più grandi differenze tra bianchi e neri sia una differenza linguistica (“Non abbiamo mai parlato l’inglese alla perfezione, e non lo parleremo mai”). L’attenzione per il linguaggio, tema caro a Godard (di quello stesso periodo è "La gaia scienza", film che riflette sulle nuove possibilità di linguaggio cinematografico), si mostra anche in una serie di giochi di parole, presentati sotto forma di cartelli che spezzano la continuità delle immagini o di scene di attori (ancora Anne Wiazemski) che le scrivono sui muri di Londra (alcuni esempi: Freudemocracy, Cinemarxisme, Sovietcong, SoCIAty…) in cui il calembour diventa strumento di lotta politica.

 

Un film, dunque, fatto di opposizioni: Stones/Godard, Cinema/Musica, Bianchi/Neri. Ma soprattutto Jagger/Richards, coppia d’oro, “attori protagonisti”, con Brian Jones quasi a fare da (terzo) elemento disturbante. E basta guardarlo in studio, Brian: silenzioso, spesso annoiato, in disparte, già carico di risentimento contro la coppia Jagger/Richards (One plus One e tertium non datur), pressoché ignorato (da Keith specialmente), con la mente già fuori dal gruppo, fatto(si) fuori (e di lì a poco non solo metaforicamente). Un film “doppio”, inoltre, questo "One plus One – Sympathy for the devil", a cominciare dal titolo stesso, doppio non per scelta del regista ma per decisione del produttore. Quest’ultimo infatti operò alcune modifiche alla pellicola (prima fra tutte il cambio del titolo, che dal godardiano e rivelatore One plus one diventa, con mossa ovviamente commerciale, Sympathy for the devil), modifiche che portarono il regista a boicottare la prima del film, organizzando una contro-prima dove venne proiettata la propria versione del film. La differenza sostanziale tra le due versioni – al di là dei singoli interventi, che in verità non mutano di molto l’andamento generale del film – sta nell’importanza data al pezzo degli Stones. A Godard non interessava il pezzo finito, bensì poneva la sua attenzione alla canzone nel suo divenire, nella sua forma ancora destrutturata.

 

Lo screzio finale con la produzione, dunque, fu la volontà di quest’ultima di far terminare il film con Sympathy for the devil nella sua versione ultima (così come appare su "Beggars Banquet"), facendola andare in sottofondo alle ultime scene del film e sui titoli di coda (non previsti dal regista). Fu un’operazione che, agli occhi del regista (giustamente), stravolgeva il senso ultimo dell’operazione da lui portata avanti in tutto il film: documentare una canzone prima che questa prendesse la sua forma definitiva, rappresentare il tempo del lavoro sul pezzo, le prove, gli errori, le ipotesi. Il film, nel suo intento originario, dunque, si pone al di là di qualsiasi film-rock o docu-rock girato o da girare: l’attenzione sul pezzo non nella sua forma definitiva, ma presentato sotto forma di frammento (o anche d’errore: molta è l’insistenza sulle false partenze, sugli sbagli) propone un nuovo modo di intendere il rock. Godard non cerca l’apoteosi della band o del pezzo, ma scava alla ricerca di ciò che sta sotto di esso ('Under the Stones the beach'  recita uno degli slogan che inframezzano il film), ne scompone il linguaggio e forse ne trova uno alternativo.

 

 

Luca Verrelli
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