Sharon Jones & The Dap-Kings IT’S A HOLYDAY SOUL PARTY
[Uscita: 30/10/2015]
Stati Uniti #consigliatodadistorsioni
Alcuni anni fa il mondo fu travolto dall’incredibile – e meritatissimo – successo di “Back to black”, di Amy Winehouse. Pochi si chiesero però chi suonasse in quel disco. Si trattava di The Dap-Kings, che in quello stesso anno 2007 davano alle stampe un altro formidabile album, insieme alla cantante Sharon Jones, “100 days, 100 nights”. In seguito Sharon ha avuto gravi problemi di salute, superandoli fortunatamente al meglio e potendo tornare alla musica. Oggi il gruppo ci presenta un altro lavoro eccezionale, “It’s a holyday soul party”. Si tratta di un disco di canzoni di Natale. Molti storceranno il naso e invece…
È un disco formidabile, soul al 100%, in cui Sharon Jones & The Dap–Kings danno il meglio di sé e della propria straordinaria musica. Non appena parte 8 days (of Hannuka), col suo incisivo riff di fiati, siamo trasportati nel mondo incantato del Northern soul. La costruzione degli arrangiamenti è raffinatissima, come era tipica dei gruppi Motown e in genere di quel periodo, e la sapienza compositiva, in grado di variare gli umori all’interno del brano, conquista l’ascoltatore. Dopo un inizio pop il brano prende un andamento funky, con percussioni latine e i sax di Neal Sugarman e Cochemea Gastelum che improvvisano con grande stile.
La festa continua con Ain’t no chimneys in the projects, con gli archi che sfiorano il Philly sound e grinta blues nei fiati e nella splendida voce di Sharon. Ma è con la terza canzone che il miracolo si compie: un barile di melassa come White Christmas diventa un riempi pista pieno di swing, ritmo implacabile e voci che fanno call and response. Le sorprese non finiscono: poteva mancare Silent night? No, però diventa un blues elegante e sofferto, come l’avrebbe cantato il B.B. King più ispirato.
Il disco è molto vario, pur rimanendo nei canoni della musica nera, per esempio Big bulbs, uno dei tre brani composti dal gruppo, molto minimale nell’arrangiamento, è più vicina all’hot jazz di New Orleans che al soul raffinato di Detroit o a quello sanguigno di Menphis, ed è una scelta che arricchisce il disco. Non mancano le ballatone, come Please come home for Christmas, un terzinato d’altri tempi, e World of love, uno strappacuore alla Otis Redding. Chiusura in tono minore con breve strumentale, God rest ye merry gents, che parte citando Grieg e funge più che altro da sigla, ma non inficia il valore del disco. Insomma, se siete uno di quelli che odiano le feste comandate, questo disco vi farà cambiare idea. Se volete fare, o farvi, un regalo di Natale comprate questo disco.
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