Queens Of The Stone Age …LIKE CLOCKWORK
[Uscita: 3/06/2013]
Si può dire che parlare di stoner rock corrisponda a parlare di Queens Of The Stone Age, o forse ancora più precisamente del signor Josh Homme, prime mover di tutto il movimento, essendo, o essendo stato, membro dei due gruppi simbolo del genere, cioè di quello oggetto di questa recensione e dei seminali Kyuss. Dal lontano 1992 la moda di rallentare e appesantire possenti riff chitarristici figli del blues ha preso piede, assurgendo al rango di “genere” vero e proprio, anche se, come al solito, i contenitori diventano troppo stretti per ciò che dovrebbe starci dentro, rendendo le definizioni rapidamente obsolete. È successo anche ai Queens Of The Stone Age, il cui stile con gli anni ha subito trasformazioni ed implementazioni, così come la formazione, sempre piuttosto instabile con l’eccezione dell’inossidabile Homme, il quale, addirittura, non ha nascosto l’avversione per il termine “stoner”, sostenendo che metterebbe in collegamento la sua musica con l’uso di droghe, cosa di cui, dice, non ha affatto bisogno.
In ogni caso, i nostri sono effettivamente “le regine dell’età della pietra”, nome scelto al posto de “i re”, ritenuto troppo machista, in ossequio all’affermazione “il rock dovrebbe essere abbastanza tosto per i ragazzi e abbastanza dolce per le ragazze, così son tutti contenti e il party è più divertente” (Josh Homme dixit). E, come spesso fanno i nobili, hanno l’abitudine di farsi aspettare, nella fattispecie di far attendere le proprie uscite discografiche piuttosto a lungo. In precedenza, però, lo iato tra due album si aggirava sui due/tre anni. Stavolta, invece, dall’ottimo “Era Vulgaris” (2007), son passati cinque anni buoni, durante i quali i membri del gruppo hanno seguito progetti solisti e “side projects” (Sweethead, Eagles Of Death Metal, Them Crooked Vultures), oltre a curare l’edizione rimixata dell’album del 2000, “Rated R” e a portarne il contenuto in tour, nel 2010. Le voci intorno a questa nuova uscita si susseguono sin dal 2011, abilmente sostenute dal gruppo stesso, che a varie riprese ha fatto trapelare notizie sull’inizio delle registrazioni e sul loro andamento, rendendo così l’attesa spasmodica.
Strategie commerciali, sicuramente riuscite, in questo caso, ma non è di questo che ci dobbiamo curare: quello che ci interessa è la musica, ovviamente. E allora, preliminarmente, tocca dire che il disco ospita nomi altisonanti, a partire da Dave Grohl, seduto dietro ai tamburi in buona parte dei pezzi, visto che il precedente batterista, Joey Castillo ha abbandonato la band nel bel mezzo delle registrazioni. Ci sono poi Trent Reznor, Mark Lanegan, Nick Oliveri, Alex Turner (Arctic Monkeys), addirittura il baronetto Elton John, che, incredibile ma vero, pare sia un fan del gruppo. Tutte queste ospitate non rendono il lavoro anonimo: la voce e la chitarra di Josh Homme sono assolutamente riconoscibili, qualche iniezione di elettronica qua e là e un paio di pezzi “tranquilli” non annacquano il “wall of sound” che riempie le nostre orecchie a partire dall’iniziale, monolitica, Keep You Eyes Peeled, un vero bignami dello stoner rock, con tutto il corollario di chitarrona accordata due o tre toni sotto, corredata di wah-wah e batteria pneumatica a bassi BPM. Un inizio davvero folgorante, seguito dall’altrettanto efficace, ma meno paradigmatica I Sat By The Ocean, numero hard rock seventies di alta scuola. The Vampyre Of Time And Memory cambia registro: è infatti una ballata lenta e dilatata in cui la voce di Homme ricorda, lontanamente, sia chiaro, certi toni del divino Peter Hammill, sostenuta dal piano, con qualche pennellata elettronica e un finale in crescendo. A seguire ecco If I Had A Tail, di nuovo vicina al genere di riferimento, un pezzo “desertico”, come da tradizione, lento, pesante, con la voce indietro rispetto al muro sonoro del gruppo.
Un altro gran brano, in definitiva, seguito degnamente da My God Is The Sun, un’altra perla dell’album, con un inizio dal riff folgorante e uno svolgersi incalzante che non lascia respiro. La seguente Kalopsia gioca con stilemi grunge, tra parti quasi sussurrate ed esplosioni di energia, quindi ecco Fairweather Friends, un’altra escursione nell’heavy rock di qualità, da sentire a tutto volume, poi è la volta di Smooth Sailing, cantata in falsetto, ancora rockaccio per duri di cuore. Sconfina nella psichedelia l’inquietante I Appear Missing, lunga cavalcata desertica di sei minuti abbondanti tra arpeggi circolari e batteria tonitruante, alla quale segue la conclusiva title track, atmosferica e dilatata come i grandi spazi della California da cui provengono le nostre “regine”. Eccoci dunque al giudizio finale, che è abbondantemente contenuto nelle note qui sopra: questo è un ottimo disco, potente, evocativo, pesante, come si può attendere da un gruppo così blasonato, che, fortunatamente, si è conservato in ottima forma nonostante la lunga militanza sulle scene del rock.
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