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1 Giugno 2017 , ,

The Beatles Anniversari: “Sgt. Pepper’s Lonely Hearts Club Band” e il suono della Summer of Love, cinquant’anni dopo

1° Giugno 1967 - 1° Giugno 2017

pepper                              I N T R O

 

Nella seconda metà dell’Ottocento, il critico d’arte inglese John Ruskin elaborava una suddivisione storica dell’arte ellenistica in tre periodi: “Archaic, Best, Corrupt”. Questo schema ABC era virtualmente applicabile a ogni espressione artistica, di qualsivoglia epoca, e si inseriva perfettamente all’interno delle coeve visioni organicistiche della storia dell’arte, che come un qualsiasi essere vivente si svilupperebbe attraverso tre età: giovinezza, maturità, vecchiaia. La storia dei Beatles - fenomeno ad un tempo artistico, musicale, sociale - pur dipanandosi in un arco temporale brevissimo (la discografia ufficiale va dall’ottobre del 1962 al maggio del 1970) ha offerto una tale densità qualitativa e quantitativa, e una tale sensazione di ricchezza, varietà e sviluppo stilistico da essere stata anch’essa oggetto di questo schema interpretativo. La metafora maggiormente utilizzata per tracciarne il percorso è quella della parabola, con le tre immancabili fasi dell’ascesa, della vetta e del declino. A questa visione hanno contribuito i racconti degli stessi protagonisti, che si sono riferiti in tal senso alla loro breve ma fondamentale avventura musicale; nei ricordi di John Lennon, Paul McCartney, George Harrison, Ringo Starr e in quelli di George Martin - così come della quasi totalità della critica musicale - la vetta viene indiscutibilmente marcata da un unico vessillo: l’album “Sgt. Pepper’s Lonely Hearts Club Band. In un secolo come il nostro, orfano di idoli e grandi racconti, questa storia non accenna ad alcuna perdita di popolarità e fascino; con i calendari gremiti di “giornate mondiali”, è sempre più forte la tendenza alla commemorazione e al revival, e ormai da mesi è partito il corteo mediatico per celebrare il cinquantesimo anniversario di questo album, l’ottavo dei Beatles e il primo in ogni classifica dei dischi più importanti di sempre. Se proprio bisogna aggiungere altre parole al racconto del Sergente Pepe, proviamo a farlo abbandonando la consueta agiografia per concentrarci sul contenuto dell’opera e su una sua analisi quanto più possibile distaccata.

 

 

The act you’ve known for all these years”: Fenomenologia del Sergente Pepe e della sua lunga Estate

 

beatles tumblr_m4bknrIFYy1qhnkvco1_1280Tornando al paradigma ascesa-vetta-declino, può essere opinabile che Sgt. Pepper sia l’album “migliore” della band di Liverpool, o quanto meno farne l’unico emblema del momento più alto della discografia beatlesiana. Anche per quanto riguarda la fase finale della loro carriera comune, se caduta c’è stata, dopo il 1967, essa è apparsa nondimeno costellata da capolavori - chi definirebbe il “White Album” l’opera di un gruppo in decadenza? - e non ha certamente seguito una traiettoria univocamente discendente. Certo, il dopo Pepper è caratterizzato da prodotti meno coesi, in cui i tre compositori (Ringo ci perdonerà se escludiamo i suoi due brani dal computo) intraprendono percorsi divergenti e scrivendo in maniera sempre più individuale. Questa era già la norma per Harrison, che emergerà anche grazie alla progressiva divisione della coppia Lennon-McCartney. Ma se gli album pubblicati dopo il 1967 presenteranno qualità alterna - come del resto quelli precedenti - vi saranno tuttavia altri picchi, così come ve n’erano fino al 1966: per molti, da un punto di vista prettamente musicale, “Revolver” e “Abbey Road” non hanno nulla da invidiare a beatles 2041e3e547adc0e419ca80087ffe0480questo disco. Lo stesso Harrison ha sempre sostenuto che secondo lui Revolver e Pepper potrebbero essere considerati “Volume I e Volume II”; Abbey Road, da parte sua, sarà il meraviglioso canto del cigno di un gruppo che, giunto alla maturità, sa che quel lavoro sarà l’ultimo realizzato assieme. In realtà, se si va oltre l’alone mistico che accompagna l’album sin dalla sua uscita, non è difficile comprendere che cosa renda Pepper il risultato più importante e influente dell’opera dei Beatles e, forse ancora di più, della musica popolare moderna. Oltre che su basi artistiche il successo epocale dei Fab Four si fondava su aspetti socio-culturali, come l’importanza dei “neonati” mass-media, il costume, e il potere - anche commerciale - di una società di cui, per la prima volta nella storia contemporanea, è la gioventù lo strato più interessante. Gli anni Sessanta sono un decennio a sé, una storia beatles 4410nella Storia il cui capitolo centrale viene scritto proprio in quell’estate del 1967, la “Summer of Love”. E l’Inghilterra ne è scenario centrale: Carnaby Street che diventa la nuova El Dorado; la Swinging London e il Flower Power; la droga e le minigonne; il cinema e l’arte d’avanguardia; i suoni di una musica in cui classico e rock si innamorano, e che nascondono - ancora per poco - l’eco del Vietnam. Al di là del valore intrinseco, ciò che rende Pepper eterno è la sua capacità di essere il più fedele ritratto dell’epoca in cui viene concepito. Sgt. Pepper’s Lonely Hearts Club Band non racconta il 1967: esso è il 1967. Gran parte degli scritti a riguardo insistono su questo retroterra, la cui prominenza è tale da sormontare a volte la musica stessa. Proviamo quindi a restare concentrati su di essa, approfittando della distanza temporale che ci separa da quel primo giugno di cinquant’anni fa, per un ascolto analitico di quanto c’era - e c’è - di nuovo e di tradizionale in questi quaranta minuti di grande musica.

 

Nell’immediata vigilia di quella Summer of Love, le sessions di registrazione per il nuovo album si svolgono in un clima di serenità e di supporto reciproco pressoché totale, dopo un’estate - quella del ’66 - che di amore, al contrario, ne aveva elargito ben poco. I Fab Four vengono da quattro anni esaltanti ma al contempo durissimi, culminati nel tremendo tour di quell’anno: una trama da thriller, in cui reclamano un ruolo da protagonisti i fondamentalisti della tradizione nipponica, che osteggiano il live nel “tempio” del Budokan; beatles 670519-beatles-sgt-pepper-launch-party_01il dittatore filippino Marcos che perseguita i Beatles per aver rifiutato il suo invito a corte (nulla in quel momento poteva valere più di un giorno libero per i quattro…); il Ku Klux Klan e gli integralisti cristiani che minacciano di morte Lennon per la famigerata frase “We’re more popular than Jesus Christ” riportata alla ribalta - totalmente decontestualizzata - diversi mesi dopo l’intervista rilasciata a Maureen Cleave dell’Evening Standard. Si aggiunga che gli impianti assolutamente “low-tech” dell’epoca - i Beatles si esibivano davanti a un pubblico urlante che poteva raggiungere le 56.000 unità, senza neanche un monitor da cui ascoltare le loro voci! - rendono la loro musica assolutamente impossibile da essere eseguita dal vivo, specie i nuovi brani di Revolver. Il 29 agosto, dopo essere scesi dal palco del Candlestick Park di San Francisco, i quattro tirano un sospiro di sollievo per quello che sarà il loro addio alle scene - se si esclude l’estemporaneo live sul tetto della Apple del gennaio 1969 - regalandosi due mesi di libertà per poi ritrovarsi ad Abbey Road a novembre con un obiettivo comune: dimenticare i beatles-sgt-pep-apple-corps-ltdconcerti e concentrarsi nell’attività in studio, loro vero interesse, concedendosi per la prima volta il tempo necessario ad approfondirne le potenzialità, soltanto pregustate durante i progetti precedenti. Sarà l’ultimo periodo di reale armonia all’interno del gruppo: la morte del manager Brian Epstein, il 27 agosto del ’67, segnerà l’inizio della loro graduale disgregazione. Un esame onesto della discografia beatlesiana dimostra ben presto come in realtà le innovazioni siano presenti sin dagli album d’esordio, ognuno dei quali presenta progressivi sviluppi stilistici che si fanno particolarmente evidenti a partire da “Rubber Soul” (1965). Da lì in poi, mentre aumentano le componenti sperimentali, diminuiscono quelle tipiche del primo periodo - strumentazione scarna, strutture tipiche del blues, etc. - che, significativamente, si ripresenteranno nell’ultima fase, specie in “Let it be”, che sembra voler ritornare alla purezza del periodo “arcaico”. Più che una parabola, un cerchio - quasi - perfetto. Revolver si era chiuso con una traccia, Tomorrow Never Knows, che è un perfetto trailer di quello che la band aveva in programma per l’album successivo; Revolution 9 ne sarà la propaggine estrema. In mezzo, il 1967, periodo centrale in cui i Beatles concepiranno la quasi totalità dei loro brani sperimentali, ognuno dei quali trarrà il massimo dall’utilizzo degli stilemi e degli elementi propri di quel momento, per rintracciare i quali, il modo migliore è proprio ascoltare Sgt.Pepper’s Lonely Hearts Club Band.

 

 

“Going in and out of style”: Lato A

 

sgt-pepper_1Uno degli effetti collaterali dell’ascoltare un’opera pensata per un supporto preciso - il 33 giri in vinile - e successivamente migrata verso altre modalità di fruizione - dalla musicassetta al compact disc, dall’mp3 al cloud - è la progressiva perdita di distinzione fra lato A e lato B. Lungi dall’essere una mera necessità pratica comportata dall’utilizzo di un medium dalla limitata capienza, la separazione fra i due lati di un LP ha il suo valore semantico che rende l’album musicale un’opera la cui articolazione può essere paragonata a quella di un film a due tempi, o meglio, di una rappresentazione teatrale in due atti. La continuità che sarà prerogativa del cd è originariamente interrotta a metà e l’atto di voltare la facciata comporta, per convenzione, un approccio all’ascolto per il quale ogni lato ha un suo inizio e una sua conclusione. Ancor più problematica la questione nel caso dello streaming, che spesso annulla anche la sequenzialità con cui è costruito il disco.

 

Play

 

Il brusio di un’audience in attesa dell’evento ci invita all’abbattimento della “quarta parete” e alla finzione di un disco immaginato come esibizione dal vivo: se i Beatles hanno abdicato ai concerti, sul loro palco sale un alter ego: la Banda dei Cuori Solitari del Sergente Pepe. L’orchestra, che entrerà in scena solo dopo qualche brano, accorda gli strumenti. Significativamente questo spezzone è tratto dalle registrazioni di A Day in the Life, con cui essa chiuderà magnificamente il sipario. E’ il tema grazie al quale Pepper viene spesso The-Beatles-Sgtdefinito prototipo del concept album, un disco che non è più semplice antologia dei brani composti in quel dato periodo, ma opera completa, legata dal proverbiale filo rosso. In realtà bisogna considerare che l’ordine di successione dei brani - studiato con attenzione certosina da George Martin per dare massima coerenza, ma allo stesso tempo estrema varietà, alle tredici tracce - non rispecchia l’ordine cronologico di registrazione.

Le sedute per Sgt. Pepper erano iniziate il 24 novembre del 1966 con Strawberry Fields Forever, seguita da Penny Lane. Due brani concepiti per un album che doveva essere, appunto, un concept basato sui ricordi di infanzia dei Fab Four. Le necessità contrattuali - la EMI, abituata a pubblicare materiale inedito dei Beatles a scadenze immensamente inferiori rispetto ai lunghi tempi che oggi scandiscono le uscite dei dischi, ha bisogno di un nuovo singolo in attesa dell’album che si preannuncia di lunga gestazione - fanno sì che i due brani vadano a formare il più grande e innovativo 45 giri mai pubblicato fino a quel pepper5-001momento, e probabilmente anche oltre. Tanto che si opta per l’inedita scelta di dotarlo di due lati A, cosa che comporta un conteggio delle vendite diviso in due, per cui ufficialmente è anche il primo singolo beatlesiano a non raggiungere il 1° posto in classifica. Come conseguenza ancor più importante, dettata dal nobile principio che due brani già usciti come singolo non possano ricomparire nell’album successivo, per rispetto ai fan e alle loro tasche, i Beatles sono costretti ad abbandonare l’iniziale tema “nostalgico”, benché la nostalgia resterà un sentimento centrale in molti dei brani successivi.

 

Sgt.Pepper’s Lonely Hearts Club Band

 

E’ solo il 1° febbraio che entra in scena il Sergente Pepe. Da tempo McCartney rimugina sull’idea di creare un alter ego musicale, basato sui fantasiosi nomi delle band californiane del tempo (“Laughing Joe And His Medicine Band, oppure Col Tucker's Medical Brew and Compound”, ricorda nel documentario “Anthology”). A dare il nome al leader della fittizia band sono nientemeno che due contenitori di sale e pepe (“Salt and Pepper”, appunto, presto modificato in Sergeant Pepper da Paul e dal roadie Mal Evans). Sin dalla opening pepperbacktrack i Beatles fanno sfoggio di una caratteristica della loro eterodossa armonia: le due battute iniziali del potente riff - incipit perentorio che ricorda Help! e A Hard Day’s Night - sembrano affermare il La maggiore come tonalità d’impianto, che però vira all’improvviso sul Sol, su cui si incardina una progressione - marchio di fabbrica Lennon-McCartney - che richiama quella di Eight Days a Week. La struttura del brano è circolare, simmetrica e, coi suoi versi di dodici battute ciascuno, si rifà alla grammatica del blues, influenza percepibile anche nella melodia che indugia nella terra di nessuno fra la terza minore e maggiore. Nulla di rivoluzionario quindi, fin qui. Al di là dei quattro corni francesi, la Lonely Hearts Club Band del Sergente Pepe si presenta molto simile ai Beatles ‘come il mondo li ha conosciuti finora’. E’ interessante come nel testo, usando la prima persona plurale, essi si presentino per la prima volta esplicitamente come band. Sarà l’ultimo album in cui davvero lo sono.

 

With a Little Help from My Friends

 

Il vocio in sottofondo si fa risata, applauso, boato, all’arrivo Billy Shears, fantomatico crooner nei cui panni Ringo interpreta With a Little Help from My Friends. Inaugurando la prassi di legare insieme brani composti e incisi anche in tempi differenti, che sarà ripresa con il cosiddetto Long Medley del lato B di Abbey Road, la seconda traccia (registrata solo il 29 marzo col titolo provvisorio Bad Finger Boogie dovuto al fatto che partycolour-724x1024Lennon si era fatto male all'indice e inizialmente suonava questo pezzo al piano, alquanto goffamente, senza usare il dito infortunato) viene congiunta attraverso la modulazione iniziale alla title track, incisa due mesi prima. È un’idea, va detto, che a John non piace - come non piacerà quella del Long Medley - ma verso la quale si mostra alla fine accondiscendente: un’inedita morbidezza del suo carattere, effetto collaterale dell’LSD. Per qualche ragione, che non si fa fatica a immaginare, i brani ideati per la voce di Ringo sono immancabilmente ispirati a un certo buonumore, nel contenuto (benché il testo qui sia solo apparentemente disimpegnato) come nell’andamento. Specie per quest’ultimo aspetto, questo è un pò l’erede di Yellow Submarine, dell’album precedente. L’arrangiamento si mantiene ancora semplice, così come l’armonia di base; non altrettanto le caratteristiche armonizzazioni a tre voci, già esposte nel primo pezzo, di cui solo un ascolto attento rivela la complessità. Il loro schema, ricorrente in tutto il disco, è quello di “domanda e risposta” fra coro e solista, caro al blues e al gospel. Altrettanto ricorrenti e in evidenza le linee di basso di McCartney, curate come mai prima d’ora. Paul percorre il suo Rickenbacker lungo tutta la sua estensione registrandolo - un’altra “prima volta” storica - in direct injection.

 

Lucy in the Sky with Diamonds

 

L’utilizzo quasi contrappuntistico del basso elettrico prosegue nel brano successivo, Lucy in the Sky with Diamonds. Molto è stato scritto sul rapporto fra Sgt. Pepper - e questa canzone in particolare - e l’LSD, qui evocato dalle stesse parole Lucy-Sky-Diamonds. Nonostante Lennon abbia sempre sostenuto come etimologia del titolo un disegno fatto da suo figlio Julian, è piuttosto palese che il testo e la musica siano discendenti diretti dell’esperienza lisergica. Le immagini evocate da John, come quelle di un Lewis Carroll in versione hippie, sono marcate da una melodia e da un’armonia ipnotiche introdotte pepperparty02bbcdall’etereo organo Lowrey, e ricordano da vicino alcune visioni di Tomorrow Never Knows e Strawberry Fields. Qui però l’atmosfera è molto più sognante e positiva: in breve, un trip andato bene. Harrison, nel bridge che ancora una volta sposta l’armonia modulando a Si bemolle, comincia a svelare le influenze indiane che pervadono il disco, replicando la melodia vocale con la sua chitarra come farebbe una dilruba (strumento simile al sitar, ma suonato con un archetto detto gaz). In Sgt. Pepper, e per l’ultima volta, la collaborazione tra Lennon e McCartney è ancora intensissima, e ne è prova lo spazio minimo riservato in questi casi a Harrison; in proporzioni variabili, molti dei brani del disco vedono i due completarsi a vicenda: qui Paul contribuisce con il refrain, la parte che mancava a John. È un hook di grande potenza, che però spezza un po’ troppo bruscamente l’incantesimo suscitato dal valzer delle prime due sezioni, perfetto nel sottolineare le apparizioni dei “cellophane flowers” e dei “newspaper taxis” (altra immagine partorita da McCartney).

 

Getting Better

 

La tracklist dell’album è impostata da George Martin in modo da bilanciare in maniera eccellente i diversi umori veicolati dalle tredici composizioni. In questo senso la radiosa Getting Better, ispirata a Paul da una passeggiata primaverile col suo cane Martha (quella di Martha my dear) costituisce l’ideale contraltare a Lucy. Oltre che dal suono della tambura (altro strumento indiano a corde, utilizzato per l’accompagnamento) all’interno pauljohngeorgeMdel bridge, l’ascendente indiano viene testimoniato, in maniera più sottile, dal bordone di Sol: questa nota fissa ribattuta ad ottave dalle chitarre e dalla pianette (prototipo di piano elettrico suonato in questa traccia da George Martin) per buona parte della durata del pezzo, sovrapponendosi agli accordi li estende con colori di volta in volta differenti. Il basso continua a imperversare attraverso il suo intero range, e l’arrangiamento vocale è ancor più elaborato che in With a Little Help. E’ interessante notare come il modello “domanda e risposta” si ripeta in diversi momenti dell’album, e che le risposte diano spesso voce al sarcasmo di Lennon: “It’s getting better…Can’t get no worse”.

 

Fixing a Hole

 

Un altro salto di quarta, dopo quello tra il Sol finale di Lucy e il Do di Getting Better, porta al Fa di Fixing a Hole, aperta dal clavicembalo in un intro che è figlio di Strawberry Fields Forever come di Michelle: la discesa cromatica dei bassi, già apparsa in Lucy in the Sky, è un altro leit motiv di questo periodo e assieme all’andamento a ottavi ostinati - vedimain-qimg-28e1774e7886c11e7a7373cce5601079 Getting Better e Penny Lane - depone per una composizione partita dal pianoforte. Il successivo White Album, viceversa, sarà forse quello più amato dai chitarristi, in virtù dei pezzi nati in gran parte durante il soggiorno in India, dove i Beatles avevano con sé solo le chitarre acustiche. Accanto all’onnipresente e iperattivo basso di Paul, qui compare il primo assolo di George all’interno del disco: otto battute magistralmente giocate su una linea melodica che ruota attorno alle note dell’accordo di Fa-7. Dal punto di vista dei testi, i due ultimi brani appaiono molto vicini nell’esplicitare le percezioni e le idee di un McCartney particolarmente riflessivo: non è un segreto che molte di queste meditazioni fossero frutto di un appassionato ricorso alla marijuana. Inoltre, è assai probabile che il titolo e il tema principale sia stato ispirato dalle “quattromila buche di Blackburn” citate in A Day in the Life, da poco incisa dal gruppo.

 

She’s Leaving Home

 

Arrivati a questo punto del disco l’arrangiamento complessivo dei brani inizia a crescere progressivamente, rivestendo le basi - dalla forma finora piuttosto canonica, in senso “beatlesiano”  - di abiti sempre più inconsueti, seppur con grande parsimonia e sobrietà. È questo uno dei tanti meriti di George Martin: il produttore e arrangiatore crea un suono omogeneo che contribuisce moltissimo a conferire al disco l’organicità richiesta dal suo status di concept album. Il suo apporto indispensabile diventa ancor più evidente quando beatles___sgt__pepper___by_jsaurerlo si valuta in absentia, prendendo in esame l’unico brano del disco non arrangiato da lui. Per quanto si pensi a Martin come una sorta di assistente a tempo pieno dei Beatles - cosa del resto non molto lontana dal vero - egli era pur sempre un produttore professionista, cui la EMI affidava in quel momento la cura di gran parte degli artisti pop-rock destinati a lasciare un segno sulle charts britanniche. C’erano quindi dei momenti, pur rari, in cui ai Beatles poteva venir richiesto di attendere. Ora, l’ego smisurato di Paul McCartney, specie in questo frangente, non era propriamente incline a rinunciare al “tutto e subito” cui era stato abituato, e la sua urgenza creativa aveva bisogno di concretizzarsi al più presto, per non perdere in immediatezza. Succede quindi che, con Martin impegnato in una registrazione di Cilla Black, Paul non esita ad affidare a Mike Leander la partitura dell’arpa e dei nove archi che fanno da colonna sonora alla storia di Melanie Coe, letta da Paul sul Daily Mirror. George si è sempre dichiarato molto ferito dall’atteggiamento di McCartney (pur conducendo, da vero gentlemen, la parte scritta da Leander - che non ha nulla della sua inventiva - garbata ma sempre identica a se stessa nelle tre strofe); l’impressione è che la vera vittima di questo episodio sia il brano stesso, che risulta troppo incline al sentimentalismo; lo stesso dicasi del testo, risollevato dai controcanti in cui Lennon, con l’abituale causticità, declama i tipici rimproveri borghesi utilizzati in queste occasioni: “We gave her most of our lives…What did we do that was wrong?”, etc.  

BEATLES-SGT-PEPPER-studio_02-768x505She’s Leaving Home è protagonista di una “doppia vita”, nelle versioni mono e stereo dell’album: nella prima, è in Fa maggiore (effetto dell’accelerazione data alla registrazione), nella seconda, più lenta, in Mi. In un album che sostanzialmente guarda al futuro, non mancano episodi nostalgici - specie da parte di McCartney - che in questo caso sfiorano l’esercizio di stile. She’s Leaving Home è uno di quei brani a rischio “cliché”; sorte cui non sfuggiranno Honey Pie, o Maxwell’s Silver Hammer, dello stesso autore. Sicuramente, l’invenzione melodica e il testo narrativo - sulla scia di Eleanor Rigby - si pongono molto al di sopra dei suddetti pastiches; c’è però qualcosa che rende questo brano forse il meno “Pepper” di tutto l’album, ed è proprio l’arrangiamento di Leander il responsabile di questa parziale estraneità al mood generale. E’ fra l’altro uno dei pochi esempi del repertorio dei Beatles (oltre a Eleanor Rigby, The Inner Light, Good Night, Revolution 9) in cui nessuno dei quattro suona uno strumento.

 

Being for the Benefit of Mr. Kite!

 

Quasi a voler marcare ancor più la differenza, segue la traccia in cui probabilmente l’estro di Martin raggiunge i livelli più alti, quanto meno in termini di fantasia timbrica: Being for the Benefit of Mr. Kite! E’ tipico di John Lennon - mente musicale non “educata”, nel senso che essa è immune agli schemi e alle regole che dovrebbero dettarne le scelte armoniche - fondare alcuni dei suoi brani più riusciti (ad esempio Help!) su un percorso fatto di accordi che partono da un punto assai lontano a quello di arrivo, lasciando una certa for_the_benefit_of_mr__kite_by_reveriescanter-d36x4urambiguità su quale sia la vera tonalità. La psichedelia si riversa nel testo quanto nell’armonia, ma l’ingrediente principale di Mr.Kite è costituito dal caleidoscopico arrangiamento. Per una composizione ispirata dal poster di uno spettacolo del circo di Pablo Fanque (Lennon si era procurato il manifesto il 31 gennaio del 1967, mentre era nel Kent con gli altri Beatles a girare il filmato promozionale di Strawberry Fields Forever. Mr. Kite era probabilmente William Kite, che fondò un suo circo nel 1810. Dal 1843 al 1845 lavorò per il circo di Pablo Fanque, nome d'arte di William Darby, nato a Norwich nel 1796 e primo uomo di colore a possedere un proprio circo in Gran Bretagna.del 1843) c’era bisogno - per citare una delle più assurde richieste lennoniane - di un arrangiamento che facesse sentire “l’odore della segatura”. George Martin riesce nel miracolo, suonando un harmonium dal sapore sinistramente circense (crollando a terra dopo quattro ore consecutive a premere i pedali che azionano l’aria per i mantici dello strumento) e creando a quattro mani con il tecnico Geoff Emerick una surreale parte di calliope a vapore, realizzata ritagliando pezzi di nastro, incollandoli poi in ordine casuale e facendoli suonare al contrario. Il suono evoca in maniera quasi illusionistica l’atmosfera del circo di epoca vittoriana, ed è impossibile non immaginare la “scena” in cui “Henry the Horse dances the waltz”. E’ il più geniale e onirico finale che si potesse desiderare per la prima parte dello show, che promette ancora meraviglie nel secondo tempo: “A splendid time is guaranteed for all”.

 

 

 

With our love we could save the world”: Lato B

 

George Harrison si è sempre dimostrato artista e uomo di rara profondità, e nulla in vita sua sembra essere stato preso alla leggera, nonostante il suo humour perennemente propenso alla sdrammatizzazione (“Basically, I’m a gardener”, sosteneva). A differenza dei seguaci delle filosofie orientali ready-made, la sua ricerca verso la musica e la spiritualità dell’India, viste come entità non separabili e che comunque egli sapeva di dover ravi-passinginevitabilmente vivere da occidentale - accettandone le contraddizioni - fu profonda e sincera, ed ebbe inizio con molto anticipo rispetto al successo mediatico della Meditazione Trascendentale e dei suoi opinabili guru, quali il Maharishi Mahesh Yogi. George parlava spesso della sensazione di incredibile familiarità avuta al primo ascolto di queste sonorità, quasi un ricordo proveniente da un’altra vita. Se la musica indiana, a partire dal suo principale interprete Ravi Shankar, godette dell’enorme cassa di risonanza offerta da un tale “testimonial” (George Harrison fu inoltre fondamentale per la diffusione internazionale del movimento Hare Krishna) definito dallo stesso Shankar “il padrino della world music”, l’opera dei Beatles e di quanti ne traevano ispirazione - in musica, grosso modo: il resto del mondo - ne risultò a sua volta fortemente influenzata, e non solo nella semplice presenza “coloristica” di sitar, tabla e tambura.

 

Within You Without You

 

Se di She’s Leaving Home si è spesso detto che non abbia retto al passare del tempo, Within You Without You, incipit del lato B, ha goduto del destino inverso. Alla sua crescente popolarità hanno certo giovato il fatto che nel frattempo l’orecchio occidentale si fosse in qualche modo educato alla musica tradizionale di culture lontane - e questo brano è stato tra i primi a farne arrivare traccia presso il pubblico di massa europeo e americano - oltre alla rivalutazione dell’opera che spesso tristemente si accompagna alla morte di un Withinartista. Si tratta dell’unica composizione di Harrison su Pepper - Only a Northern Song fu troppo frettolosamente cestinata - ma vale da sola molto più della maggior parte delle sue precedenti creazioni e rappresenta, nell’opinione di chi scrive, il “manifesto filosofico” dell’intero album, di cui è - coi suoi 5’35” - anche il brano più lungo (nelle intenzioni dell’autore, la durata avrebbe dovuto aggirarsi sui trenta minuti!). George dimostra di aver appreso la lezione di Shankar suonando con personalità il sitar, accompagnato dai musicisti indiani dell’Asian Music Circle e da una sezione orchestrale tipicamente europea (undici archi: otto violini e tre violoncelli). Originariamente eseguito in Do (la tonalità di Do# udibile sul disco è un ennesimo effetto del varispeed, dispositivo che permetteva di modificare la velocità del nastro magnetico, sia in fase di riproduzione che di registrazione, alterando con la velocità anche il pitch, ossia l’altezza delle note) il pezzo parte da un raga fondato sulle note del Khamaj Thaat, approssimativamente paragonabile ravi-harrison_1618702calla nostra scala Misolidia. Se la melodia e l’armonia rispettano in pieno i dettami della tradizione musicale Hindustani, con gli strumenti che conservano le loro funzioni tipiche - ad esempio la dilruba accompagna passo dopo passo la voce - il ritmo si distacca dal concetto di tala (la metrica fissa che tipicamente fa da base ai raga indiani): è sicuramente uno dei pezzi beatlesiani ad avere il maggior numero di cambi di metrica. Molti critici hanno in passato mosso obiezioni verso questa libera interpretazione, dimenticandosi che - pur essendone fortemente ispirato - questo non è un brano di musica indiana, ma pur sempre una canzone dei Beatles: ce lo ricordano essi stessi, sciogliendo in una risata finale la serietà senza precedenti di questa composizione.

 

When I’m 64

 

La sdrammatizzazione prosegue con When I’m 64. Questo nostalgico vaudeville, uno dei primi pezzi scritti da McCartney - Lennon lo ricorda sin dai tempi del Cavern, quando veniva usato strategicamente per situazioni d’emergenza, come un guasto agli amplificatori o un black-out - vuole essere un omaggio allo stile suonato da James McCartney, padre di Paul e musicista dilettante. Solo la tonalità accomuna questo brano paul-mccartney-beatles-sgt-pepperal precedente: anche qui il varispeed accelera l’esecuzione conducendola ad un Do diesis che rende la voce di Paul molto adatta a interpretare la visione adolescenziale di un futuro da anziani, situazione in realtà fra le più spaventose immaginabili dalla mente di un giovane di fine anni sessanta. La struttura è praticamente palindroma e l’armonia, dettata dall’atmosfera old-style jazz del brano, ha alcuni momenti interessanti conditi da cromatismi e accordi di settima diminuita, che diventeranno in futuro un marchio di fabbrica soprattutto della produzione da solista di Harrison. L’arrangiamento evoca le fattezze della parodia, dell’ironico esercizio di stile cui ammicca anche il “manierismo” con cui la strofa non inizia immediatamente dopo l’intro, dando la sensazione che i fiati temporeggino, diminuendo la dinamica, in attesa dell’attacco del cantante. È la prima di una lunga serie di incursioni nella nostalgia retrò da parte di Paul (seguito negli album successivi da Your Mother Should Know, Honey Pie, Maxwell’s Silver Hammer, etc.) che - come già segnalava l’atmosfera di She’s Leaving Home - si espone al rischio di apparire melenso e stucchevole. Se fino al 1967 tale inclinazione sarà solitamente controbilanciata dalla presenza di Lennon, il progressivo allontanamento dei due negli anni successivi priverà Paul del salvagente che gli impedisca di affogare - e non di rado - tra le onde del kitsch.

 

Lovely Rita

 

original_113Dopo l’ouverture raga-rock - come la definirà parte della critica - e il music-hall, Lovely Rita segna il ritorno a uno stile più tradizionalmente Beatles, quasi dimenticato nei quattro pezzi precedenti, dai quali era praticamente sparita ogni traccia di chitarra. L’eterodossia formale di questa canzone è tale da chiedersi quale sia la strofa e quale il ritornello, sezioni che con l’andare del tempo avranno contorni sempre più labili nella discografia dei Fab Four. Quello che è tipicamente Pepper qui va ricercato ancora nelle voci, armonizzate per quinte non diatoniche e restituite con grande eco e spazialità. Le stesse voci, nella lunga coda, attraversano lo spettro sonoro alternandosi in gemiti quanto meno allusivi, lasciando supporre un epilogo positivo dell’incontro tra Paul e Rita; anche quest’ultimo personaggio - come la protagonista di She’s Leaving Home e gli episodi di A Day in the Life - è ispirato dalla lettura di un articolo di giornale, fonte ricorrente per le narrazioni di questo disco.

 

Good Morning, Good Morning

 

Non solo i quotidiani londinesi, in questa primavera del ’67, fungono da ispirazione per i versi di Lennon-McCartney. John, in special modo, dopo aver musicato il manifesto circense di Mr.Kite, dà prova in Good Morning, Good Morning, di poter trarre spunto da altre fonti letterarie assolutamente nobili, quali la pubblicità dei Kellog’s Corn Flakes. Il lennonjingle di questa nota réclame, con lo slogan “Good morning, good morning, the best for you each morning”, suggerisce l’incipit di un brano che si snoda attraverso una sequenza di scene di ordinaria banalità borghese; una tediosa vita quotidiana della quale John - con amara autoironia - si sente anch’egli vittima: la sua infelice situazione coniugale, dalla quale sta per cercare “rifugio” in Yoko Ono, è evocata dal riferimento alla serie tv Meet The Wife, allora in onda sulla BBC. È abbastanza evidente, come John stesso dichiarava, che il televisore in quei giorni fosse perennemente acceso, in casa Lennon. Questa canzone è piuttosto sottovalutata dalla critica e dagli ascoltatori che solitamente, giunti a questo punto dell’album, non resistono alla tentazione di saltare subito allo straordinario finale. In realtà, quello che per una volta nuoce alla tenuta del brano è l’arrangiamento, che nel resto dell’album - ad eccezione della “non-martiniana” She’s Leaving Home - costituisce sempre un arricchimento dei brani, e non cade mai nel superfluo. In questo caso l’eccesso di sovraincisioni (Good Morning  Good Morning è il brano di Pepper che ne contiene il maggior numero), i ridondanti fiati dei Sounds Incorporated e gli ovvi versi di animali distraggono troppo l’ascolto da quello che in realtà - si ascolti l’essenziale versione della “Anthology vol.2” -  sarebbe un gran pezzo rock, dal ritmo serrato e dalla metrica assolutamente imprevedibile, impreziosito da un furente assolo di chitarra elettrica - uno dei pochi di Pepper - quasi “sitar-style”.

 

Sgt. Pepper's Lonely Hearts Club Band (Reprise)

 

Se la cosa può essere ricorrente nella tradizione del teatro musicale, la ripresa del pezzo iniziale per concludere un album rock è una scelta assolutamente innovativa, resa ancor più originale dal fatto che in realtà la Reprise è il penultimo brano di Pepper. E’ come programmare - dando una percezione di continuità e a tutto il contenuto - un’uscita di Albumscena della Lonely Hearts Club Band che ringrazia il pubblico e abbandona il palco, richiamando all’attenzione l’arrivo del sensazionale epilogo, che forse i quattro ritengono già la loro vetta artistica: impossibile lasciarne gli onori alla Band del Sergente Pepe. L’ideazione di questo stratagemma è tradizionalmente attribuita a Neil Aspinall (John andò da Neil e gli disse "A nessuno piacciono i furbetti, Neil..."; "fu allora che seppi che a John piaceva, e l'avrebbero realizzata", disse in seguito Aspinall, amico dei Beatles e membro del loro entourage fin dagli esordi) e contrariamente a quanto si possa ragionevolmente supporre, giunge soltanto nelle giornate finali delle sedute d’incisione. La Reprise e With a Little Help From My Friends, due fra i segni che denotano più esplicitamente la presenza della Sgt. Pepper’s Lonely Hearts Club Band come protagonista dell’album, sono in realtà le ultime tracce a essere registrate, nei giorni che vanno dal 29 marzo al 1° aprile. Attraverso un’eccellente operazione di editing, la Reprise viene collegata in maniera esemplare sia a Good Morning, Good Morning - il cui ultimo verso di gallina si trasforma nella chitarra che precede il count-in di Paul e il malizioso “Bye…” di John - che al pezzo finale, la cui tonalità viene raggiunta modulando di un tono dal Fa al Sol.

 

A Day in the Life

 

day in the life sheet musicProprio la tonalità è uno dei portatori di coerenza per l’album; essa orbita attorno a tre poli principali: Sol maggiore, Mi minore, Mi maggiore (uno schema simile verrà seguito per il Long Medley su “Abbey Road” nelle tonalità di Do maggiore, La minore, La maggiore). Sono gli stessi cardini su cui ruota l’armonia del brano conclusivo, capolavoro assoluto dell’album e dell’intera carriera dei Beatles: A Day in the Life. Di questo pezzo sono state sviscerate storie, interpretazioni, fonti, analisi. È stato detto tutto, e il proverbiale contrario di tutto. Ad esso sono ascritti, come in una sineddoche musicale, i miti e le leggende che pervadono l’intero disco. I messaggi subliminali, l’elogio dell’LSD, le prove ed il racconto della presunta morte di Paul McCartney. Tutti gli scritti su Pepper, o quasi, finiscono per cedere alla tentazione di rievocare queste storie; qui si è promesso di restare concentrati sulla musica, e così sia. La musica stessa, però, viene spesso identificata tout court con quel celebre crescendo orchestrale che compare per due volte; questo impressionante coup de théâtre talvolta monopolizza a tal punto l’attenzione da far passare in secondo piano tutti gli altri motivi d’interesse. Il testo di Lennon è a pieno titolo un esempio di narrazione surrealista, col suo ricorso allo spostamento del senso operato attraverso accostamenti inconsueti, e rievoca immagini degne di un film di Buñuel. La sua interpretazione vocale è limpida e quasi distaccata rispetto alle scene narrate, e quella di McCartney ne è ideale complemento. Mai troppo sottolineata la superba prestazione musicale di Ringo, che qui contribuisce con a_day_in_the_life_video.png.CROP.promo-xlarge2quella che è forse la più bella parte di batteria della sua carriera, un fantastico contrappunto ai versi di Lennon. Ma anche l’orchestra stessa va oltre i suoi memorabili climax: con magnifico raziocinio, George Martin ne distribuisce gli interventi come macchie di colore sempre più calde e dense man mano che la partitura avanza, nei punti topici del testo. Al risultato finale concorrono anche felici coincidenze, che non sono rare nella discografia dei Beatles: così, la sveglia e il conteggio di Mal Evans, si ritrovano a calzare a pennello per la sezione centrale di Paul e l’inizio del vortice orchestrale - senza dimenticare i suoni a 15.000 Herz dedicati esclusivamente al…pubblico canino; e la “traccia fantasma” ante-litteram variamente interpretata dall’esegesi beatlesiana -  rendendo il pezzo ancor più ricco e variopinto. E poi, il finale. Un beethoveniano accordo di Mi maggiore, sostenuto per oltre un minuto e prodotto da tre pianoforti diversi suonati a dieci mani: Lennon, McCartney, Starr, Martin e Evans. A Day in the Life sintetizza in cinque minuti e mezzo tutti gli ingredienti che rendono Sgt. Pepper quello che è. La melodia, l’originalità armonica, l’uso creativo dell’arrangiamento, degli effetti sonori e in generale dello studio di registrazione come un vero e proprio strumento musicale. In breve, tutto giunge all’apice contemporaneamente, in un unico brano, che dopo cinquant’anni mantiene inalterato il suo fascino e la sua indecifrabilità, continuando a turbare e ad eccitare: “I’d love to turn you on”.

 

 

George Martin

 

beatlesmartinCX0aMiRUwAEkVF3Sgt. Pepper è, in buona parte, l’opera attraverso cui Paul McCartney rivendica per la prima volta la leadership del gruppo; un atteggiamento dettato sì dal suo carattere ambizioso, ma anche dal fatto che oggettivamente, da questo momento in poi - in particolare dopo la morte di Epstein - sarà lui a investire le maggiori energie nelle attività della band, anche quelle destinate al flop, come il film “Magical Mistery Tour” e il progetto “Get Back/Let it be”. Se questo alla lunga sarà una delle cause del disfacimento dei Beatles, la stagione di Sgt. Pepper si gioverà enormemente della sua creatività, qui allo zenith assoluto; come lo è quella di Lennon che tuttavia, distratto dall’acido, gli lascerà - almeno dal punto di vista quantitativo - la conduzione. Ma Sgt. Pepper non sarebbe tale senza l’apporto dell’ormai noto “Quinto Beatle”, ranking che in realtà in questo album gli sta stretto. George Martin ha meriti che solo di recente la storia ha iniziato a riconoscergli. Uno dei maggiori elementi di coesione di questo disco è il sound creato tra le quattro desolate mura di Abbey Road, con limitazioni tecniche beatles martin 167116significative anche per l’epoca stessa che tuttavia non fanno che stimolare ulteriormente la necessità di soluzioni inedite: gli espedienti per riversare enormi quantità di informazioni sonore su sole quattro piste, l’uso creativo di eco, ADT (Automatic Double Tracking: sistema che permette di creare una doppia registrazione, a partire da un’unica esecuzione, della voce o di uno strumento musicale, inventato proprio dai tecnici dei Beatles nel 1966), Leslie, gli editing e gli effetti sonori realizzati in maniera letteralmente artigianale, tagliando e ricucendo nastri. La capacità soprattutto di saper sempre trovare i colori giusti per impreziosire i brani dei Beatles senza indugiare neanche in una nota di troppo rispetto al necessario. Sopraffatti da una mole di idee senza precedenti da parte dei tre protagonisti di cui sopra, Harrison e Ringo si trovano a disposizione uno spazio molto più angusto rispetto agli album precedenti (Ringo dichiara sovente di aver imparato a giocare a scacchi durante quelle lunghe ore trascorse ad Abbey Road); ma, nello spirito di sincera serenità che caratterizza la nascita dell’album del secolo, essi partecipano - se non come autori, come musicisti - al meglio delle loro possibilità.

 

Conclusioni

 

beatles (1)Sgt. Pepper esibisce e compendia il meglio dei vari elementi del periodo cosiddetto “psichedelico” dei Fab Four. I testi sono fra i più ispirati e fantasiosi mai prodotti da Lennon, Harrison e McCartney e oltre che per le immagini surreali dettate dall’LSD, si caratterizzano per il rimando a fonti letterarie - Lewis Carroll, i testi sacri Hindu - ma anche mediatiche (tv, radio, giornali) in un melting-pot di riferimenti tipico della controcultura degli anni sessanta, acquisendo oltre che in creatività in capacità narrativa. Se le linee melodiche si inseriscono nella ormai consolidata tradizione beatlesiana - dagli ampi intervalli quelle di McCartney, laddove Lennon insiste su note ripetute muovendo gli accordi sottostanti - l’armonia sviluppa da un lato la tendenza, in loro da sempre presente, all’ambiguità tonale e a modulazioni e cadenze inattese, con un uso intensivo degli accordi costruiti sul grado bVII (Lennon e McCartney hanno sempre attribuito tale originalità alla completa mancanza di istruzione musicale, che a loro dire avrebbe finito per forzarli a seguire le norme armoniche tradizionali); dall’altro, sulla scorta dell’influenza indiana, diventa più modale, edificandosi sempre più spesso su bordoni e pedali (Within You Without You, dopo Tomorrow Never Knows, è l’esempio più lampante). In un album in cui spesso il ritmo segue un danzante andamento a ottavi swing (With a little help, Getting Better, Fixing a Hole, Mr.Kite, When I’m 64) i cambi di metrica sono estremamente frequenti e spesso dovuti a testi che nascono prima della musica, e ai quali è quest’ultima a doversi adeguare. Il basso di Paul acquista una sua voce peculiare, mentre le voci vere e proprie continuano a tessere magistrali intrecci come in passato; l’uso consapevole dell’orchestra, degli strumenti etnici, e gli effetti sonori apportati dal genio di George Martin completano la ricetta.

 

georgemartin-beatlesSgt. Pepper’s Lonely Hearts Club Band non nasce dal nulla. Oltre a far da sfondo a istanze sociali, di costume, di rinnovamento artistico e culturale, l’estate del 1967 e i mesi che la precedono sono un periodo di vitalità musicale intensissima a livello internazionale. Bob Dylan ha da tempo riportato i testi a un ruolo primario nella stesura della canzone, e il suo “Blonde on Blonde” del 1966 tocca nuovi apici di poesia applicata alla musica. Frank Zappa nello stesso anno è protagonista di un esordio sconvolgente con i suoi Mothers of Invention: “Freak Out!” ha sul rock lo stesso effetto che il Dadaismo aveva avuto sull’arte. I limiti, anche quelli formali e temporali - i tre minuti canonici dei singoli - vengono abbattuti uno dopo l’altro; la popular music si fa adulta e si ringoapre a contatti e influssi, dalla musica classica a quella etnica, dal jazz all’opera. E lo fa senza perdere nulla della sua vendibilità: negli anni ’60 e ’70 i dischi più venduti possono - anzi, devono - essere anche quelli più sperimentali e innovativi. La leggenda vuole i Beatles protagonisti di una infinità rivalità con i Rolling Stones, cui pure regalarono il primo successo, I Wanna Be Your Man. Non ce ne vogliano Jagger & co., ma dal punto di vista compositivo e dell’attività discografica il confronto, eccetto che per qualche singolo, non si è mai posto. Piuttosto, oltre alle suddette influenze di Dylan - grazie a cui matura la capacità narrativa di Lennon, McCartney e Harrison - della Motown e di Zappa (McCartney durante le sedute definì spesso l’album a venire “il nostro Freak Out!”) - sono i Beach Boys i veri avversari di una partita a scacchi lunga due anni, giocata a colpi di dischi memorabili.

 

La mossa d’apertura era stata “Rubber Soul”, a fine 1965: dopo il primo ascolto, Brian Wilson si siede immediatamente al piano e compone God Only Knows. L’album “Pet Sounds”, il 16 maggio dell’anno successivo, sembra portare in vantaggio i Beach Boys, che però tre mesi dopo subiscono uno smacco con “Revolver”, la prima avvisaglia di uno scacco in due mosse. Wilson, nel tentativo di recuperare posizioni, inizia quindi a lavorare beatles-vs-bbsu “Smile”, l’album che avrebbe dovuto sancire il suo trionfo. Nel frattempo i Beatles erano stati davvero colpiti da Pet Sounds. Il nuovo album avrebbe dovuto eguagliarlo e superarlo, e molte sono le suggestioni assimilate dall’opera di Wilson: la spazialità del suono, il ruolo del basso elettrico e altri piccoli e grandi influssi. A febbraio esce Strawberry Fields Forever: ascoltandola per la prima volta in auto, Brian Wilson crolla in lacrime, esclamando disperato “They got there first”. L’uscita di Sgt.Pepper è il colpo definitivo, lo scacco matto, e contribuisce non poco all’abbandono del progetto Smile e all’aggravarsi di un esaurimento nervoso dal quale il leader dei Beach Boys non si riavrà mai del tutto. Non è solo Wilson a restare sconvolto dall’ascolto dell’album. La lode è unanime - o quasi, si vedano le eccezioni di Lou Reed e dello stesso Zappa - da parte di pubblico, critica, musicisti.

 

Un semplice sguardo alla copertina, capolavoro pop art di Peter Blake (nella foto sotto a sinistra) e Jann Haworth, rende il disco qualcosa di iconico già prima dell’ascolto, che ovviamente resta l’esperienza sensoriale fondamentale. Le vendite sono sensazionali, ventisette settimane consecutive al primo posto nelle charts inglesi. Dopo soli tre giorni Peter-Blake-Getdall’uscita Jimi Hendrix omaggia il disco aprendo il concerto al Saville Theatre con la sua cover della title track: è a tutt’oggi uno dei più grandi tributi della storia del rock. Per giorni, dopo l’uscita, le radio europee e americane trasmettono ininterrottamente ed esclusivamente i brani tratti dal disco. Probabilmente la testimonianza più impressionante dell’impatto di questo disco sulla cultura del tempo resta quella dello scrittore americano Langdon Winner: “Nel momento esatto in cui usciva Sgt.Pepper’s stavo guidando attraverso il Paese sulla Statale 80. Dovunque mi fermassi per fare benzina o mangiare qualcosa, a Laramie, a Ogallala, a Moline, a South Bend, non si sentiva altro che quelle canzoni, trasmesse da qualche radiolina a transistor o da un giradischi lontano. È stata la cosa più incredibile a cui abbia mai assistito. Per un attimo la sgt_pepper_collage_peter_blakecoscienza dell’Ovest, così insanabilmente frammentata, si è magicamente unificata, almeno nella mente dei più giovani”. Il merito principale di Pepper, si è detto, è di aver catturato interamente lo spirito di una generazione e di un preciso momento storico, cosa che solo le grandi opere d’arte sanno fare. E come ogni grande opera d’arte, esso riesce ad essere più forte del tempo che passa, mantenendo intatta la sua ricchezza e il suo fascino. Dopo mezzo secolo, i Beatles e il loro pubblico di Cuori Solitari ci guardano dall’alto di quella copertina lasciandoci con la sensazione che la loro opera più elogiata abbia ancora molto da svelare. Dopo mezzo secolo, soprattutto, resta ancora miracolosamente immutata la capacità di questo disco di stupire, di emozionare e di farsi portavoce della più grande e appassionante avventura musicale del Novecento. 

 

Francesco Brusco

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