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18 Febbraio 2020

Nirvana Nevermind

1991 - Geffen Records

Nevermind” viene pubblicato nel 1991, due anni dopo “Bleach”, primo album dei Nirvana che già era tosto, atipico, rumoroso e intriso di punkitudine. Rispetto al predecessore, “Nevermind” ammorbidisce i toni. Se “Bleach” era un’insidiosa fanzine su grigiastra carta riciclata, l’album del ’91 è una rivista a colori, lucida e patinata e pur mantenendo un sound potente e poderoso la cifra stilistica di Kurt Cobain (che in fondo è un cantautore) si melodizza creando la miscela esplosiva che aprirà le porte a un successo stratosferico. Dire che “Nevermind” sia un ruvido party al quale si ritrovano i tre ragazzi di Seattle in compagnia di Lennon/McCartney e Tony Iommi sarebbe forse un po’ azzardato (ma On A Plain non è, sotto sotto, puro Beatles’s style?) ma la cosa funziona: l’album ha un successo planetario e inaspettato e all’angelo biondo Kurt Cobain spuntano improvvisamente (troppo improvvisamente) due fragili ali che lo porteranno a volare in molte parti del mondo sulla corrente di una notorietà immensa e fulminea. L’album, corredato da una delle copertine più iconiche degli ultimi trent’anni, come pochi altri nella storia del rock può fregiarsi dell’aggettivo epocale assumendo un’importanza non solo musicale, aprendo le porte al fenomeno “grunge”, ma anche socio-culturale diventando lo spartiacque e il simbolo di una generazione. La triade di brani che apre l’album è devastante: Smells Like Teen Spirit diventerà un inno generazionale ultra citato e riconosciuto fin dal primo accordo, In Bloom può vantare un assolo di chitarra schizzato e spigoloso sintonizzato sui rumorismi dell’album precedente, Come As You Are (da ascoltare preferibilmente in cuffia al massimo volume) rinverdisce i fasti di un bassismo macinante alla Grand Funk Railroad, ma tutto l’album si snoda e scorre sui binari di un hard rock dopato e pop-ato terminando dopo un’oretta scarsa e dodici ottime canzoni tra le quali le punkettose Breed e Territorial Pissings, la popedelica e acustica Polly e l’introspettiva Something In The Way, con la particolarità (purtroppo!) di inventare la pratica inutile e malsana della traccia nascosta, cioè un ulteriore e ultimissimo brano, il tredicesimo, non accreditato in copertina che si rivela dopo quattordici lunghissimi minuti di silenzio dopo la fine dell’ultima canzone ufficiale. Pratica poi imitatissima e fortunatamente oggi caduta in disuso (che fastidio volendo ascoltare l’album in random). L’enorme successo mondiale e fulmineo si rivelerà un’arma a doppio taglio per la personalità fragile, instabilmente emotiva e incline alla depressione di Kurt Cobain incapace di gestire la pressione del gigantesco successo improvviso e forse neppure desiderato a tali livelli che cade come una mannaia sulla sua testa facendolo prendere in ostaggio dall’eroina, dall’alcol, dall’ulcera che si manifesta sempre più profonda e dolorosa e da episodi di incontrollata violenza. Le fragilissime ali dell’angelo cominciano a sfaldarsi fino a farlo precipitare al suolo per non rialzarsi più subito dopo la realizzazione del terzo e ancora ottimo album “In Utero”. Il suicidio di Cobain nell’Aprile del 1994 a soli ventisette anni, impedisce, se non altro, un eventuale inaridimento creativo (mai sapremo se ci sarebbe stato) ancora di là da venire, poiché la sua morte lascia in eredità oltre i tre album citati un paio di ottimi live e una raccolta di inediti e rarità di buon livello. Una mezza dozzina di piccole gemme da incastonare nel diadema del rock.

Maurizio Pupi Bracali

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