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10 Aprile 2020 ,

The Dream Syndicate The Universe Inside

2020 - ANTI-Records
[Uscita: 10/04/2020]

Il destino di certi album è quello, forse ineludibile, di dividere critica e fans, e non pensiamo possa andare diversamente con questo ultimo lavoro dei Dream Syndicate dell’immarcescibile Steve Wynn. Soprattutto quando esso abbia a discostarsi dai consueti canoni stilistici, pur variegati di per sé e proteiformi in essenza. Ebbene, ben vengano le divisioni in ordine al giudizio, purché si discetti comunque di grande musica. Perché in “The Universe Inside”, di grande musica ve n’è a profusione. Dopo che “Il Sindacato Del Sogno” aveva rappresentato il fiore all’occhiello della scena del Paisley Underground, con dischi strepitosi fino alla fine degli anni Ottanta, col conseguente doloroso scioglimento, e in seguito alla ricostituzione del 2012, si pensava non potessero più essere attinte vette artistiche di un certo rilievo. Invece, sono arrivati due sontuosi lavori: “How Did I Find Myself Here?” del 2017 e “ These Times” del 2019. Il presente album, in un certo senso, stravolge l’architettura sonora peculiare ai Dream Syndicate. Esso è il frutto di interminabili jam-sessions, dove domina la più spericolata improvvisazione, condensata in quasi un’ora di musica per complessivi cinque frammenti. La band è quella dei tempi più recenti, oltre a Steve, vi figurano gli storici Mark Walton al basso e Dennis Duck alla batteria, Jason Victor e Paul B. Cutler alle chitarre. Come ospiti di un certo lingnaggio, Stephen McCarthy ( Long Ryders) al sitar, l’ottimo Chris Cacavas alle tastiere e il pirotecnico Marcus Tenney al sax. Il disco è la risultante di travolgenti spire di psichedelia avanguardistica, lampi di free-jazz, architetture chitarristiche liquide e distorte. L’antifona è già chiara col brano inaugurale, lanciato in anteprima come singolo, The Regulator: una cavalcata psichedelica di venti minuti, con intarsi di sax alla maniera di un Ornette Coleman, la sezione ritmica che martella le trombe d’Eustachio, le dita che piombano come magli d’acciaio sulla tastiera, un brano spiazzante, eccessivo, devastante ma geniale. Si cambia registro con la traccia successiva, The Longing dove le sonorità approdano a lidi più classicamente psichedelici, con la voce ispirata di Wynn che sovrasta le note liquescenti della chitarra, e una ben riconoscibile linea melodica affiora dall’ordito, riportando l’impianto stilistico al tradizionale patrimonio musicale dei Nostri. Così come ai migliori fasti del Paisley Underground riportano le note di rock psichedelico di Apropos Of Nothing, una ballata lisergica su di un filo steso sull’abisso, dove voce e chitarra s’intersecano generando armonie distorte. Come un fiore di napalm germina, invece, la linea frastagliata di Dusting Off The Rust, col sax di Tenney che si staglia imperioso sulla tessitura psych del brano, arricchendola di preziose sfumature jazzy. Un morbido seppur inquietante tappeto di tastiere e sax introduce lo spoken word di Steve Wynn in The Slowest Rendition, prima che il brano esploda in una pletora di colori venefici e vada a concludere un album strepitoso, a dimostrazione del fatto che quando si muove Steve Wynn l’esito è sempre strabiliante.

Voto: 8/10
Rocco Sapuppo

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