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30 Marzo 2013

Contro il cinema Carmelo Bene

1968-1973 - Italia

Quelli che vedono non vedono quello che vedono: pellicole (come occhi) tagliate, per un cinema del supporto

 

 

Carmelo Bene contro il cinema“Truccato da ‘cinema verità’ Nostra signora dei turchi non fu compreso né come grandioso poema epico sul ‘sud del Sud dei santi’, né tantomeno come linguaggio cinematografico. Così come nel precedente omonimo romanzo nulla si capì di tanta parodia della vita interiore”

(Carmelo Bene)

 

Collocare Carmelo Bene all’interno di un filone dell’italica cultura (che sia cinema, letteratura, teatro poco conta) è operazione assai ardua. Per quello che riguarda la pur breve (ma neanche tanto) parentesi cinematografica di Bene (“parentesi eroica[…] Immane spreco di energia a dar fondo all’avventura di ben cinque film consecutivi, diretti, prodotti, ‘scemografati’, decorati, vestiti, calzati, registinterpretati. Cinque film d’‘autore’, autore in particolare del proprio disfacimento”) schematizzare, arginare una poetica che procede spesso per accumulo (con conseguente effetto-sottrazione) non è semplice e neanche così produttivo. Gli anni in cui l’attività registinterpretativa si snoda sono quelli tra il 1968 e il 1975. Come regista-attore la sua carriera comincia col corto Hermitage (1968), e poi Nostra Signora dei Turchi (1968), Capricci (1969), Don Giovanni (1970), Salomè (1972), Un Amleto di meno (1973). Come attore, in prove spesso “alimentari”, partecipa a Un’ora prima di Amleto + Pinocchio e Bis di Paolo Brunatto (entrambi del 1965), Edipo Re di Pasolini (1967), Umano non umano di Schifano (1969), Lo scatenato e Tre nel mille di Franco Indovina (rispettivamente 1967 e 1971), Colpo rovente di Piero Zuffi (1970), Necropolis (1970) di Franco Brocani, Claro (1975) di Glauber Rocha.

 

“Nostra Signora dei Turchi” e “l’altro da sé” cinematografico

 

Nostra Signora dei Turchi, primo lungometraggio e summa cinematografica di un lavoro transmediale, tra letteratura e teatro, deflagrò sulla scena del cinema italiano come una bomba sapientemente piazzata: il film del Sud profondo, “saraceno”, dei suoi santi, dell’ossessione per un barocco – meridionale – al tempo stesso assolato e oscuro (il bianco delle abitazioni, lucente e, di contro, il buio della cripta della cattedrale di Otranto), dove ciò che di solito è dentro è fuori e ciò che è fuori deve stare dentro, è un processo di  accumulo ininterrotto di immagini, di musiche, di parole (teatrali, poetiche, proprie e dicarmelo_benenostra_signora_dei_turchi altri, nitidamente esposte e confusamente sovrapposte tra loro), le quali finiscono per creare un effetto contrario a quello che ci si aspetterebbe. Invece di aggiungere questo surplus al cinema, l’effetto ultimo di Nostra Signora dei Turchi è quello di un cinema in cui l’horror vacui barocco assume una funzione svuotante rispetto a qualsiasi norma o regola che il cinema stesso si era dato nell’arco di tutta la sua storia. Il film porge allo spettatore lo spettacolo di un cinema privato di tutto ciò che cinema di solito è o suole essere: la presenza implica necessariamente un’assenza, quella del cinema stesso.

 

Cinema: regno dell’immagine. Mi provai ad eccedere l’immagine pur di dissipare il malinteso della mia preavventura teatrale. Cinema: gioco del soggetto che gioca perverso con l’immagine, come si fa con il più futile dei balocchi. L’obiettivo giocato come il caleidoscopio dei bambini che nello stupore orecchiano ben altro, la musicalità delle immagini, effetti ottici della phoné. Invece del racconto, questo bricolage di suoni e immagini destinato a una citazione di racconto, questa miriade di segni alla deriva dell’onda sonora che detta il movimento. Tutto giocato in perfetto a-sincrono, nell’idiosincrasia tra “musicalità” e “musica”, che non sempre coincidono. Quindi, Nostra Signora dei Turchi, se vogliamo”.

 

Sfondare la pellicola

 

Si faceva un gran discutere, negli anni in cui Nostra Signora dei Turchi veniva realizzato, sui concetti di avanguardia e sperimentalismo. Stando alle ormai classiche definizioni di Umberto Eco (Opera aperta) l’avanguardista di solito pone l’artista e la propria opera – in una sintesi perfetta tra arte e vita –  “avanti” (etimologicamente), rispetto a un sistema estetico, per quanto inteso in maniera più ampia possibile (sistema-arte, sistema-letteratura, sistema-cinema), sistema che è considerato un obiettivo da abbattereCarmelo_bene dall’esterno del sistema stesso. Chi fa dello sperimentalismo, al contrario, agisce in maniera eterodossa, ma dall’interno, rielaborando in maniera nuova una tradizione assodata. Assodati questi semplici (ormai forse banali e superati) assunti, ci si accorge subito come il cinema di Bene non stia a proprio agio all’interno di nessuno dei due. Il cinema di Bene non è d’avanguardia perché non vuole stare “davanti” a nessuno; né tanto meno è sperimentale, poiché non vuole rinnovare il cinema né dall’interno né dall’esterno: c’è una sorta di paradossale rifiuto del cinema stesso attraverso il cinema. Perfino un atteggiamento di tipo avanguardistico, infatti, presuppone almeno l’esistenza di una tradizione da abbattere, ma proprio questo è negato al cinema da Bene: l’esistenza. L’esperienza cinematografica di Carmelo Bene inizia con un’operazione di tipo gestuale.

 

L’azione attoriale e registica non è concentrata solo al di fuori del mezzo stesso, ma in contemporanea si dipana intervenendo sul mezzo stesso, sulla pellicola che solitamente ha una funzione passiva (semplice “raccoglitrice” di immagini), e puramente meccanica. Il gesto è un vero e proprio atto di sfondamento della pellicola (del film): uno sfondare che oltre ad essere una metafora della martirizzazione “eroica” (e crudele, in senso artaudiano, ma anche barocco; si veda ad esempio la sequenza delle iniezioni effettivamente autoinflittesi da Bene stesso nella piazza di Otranto, in pieno stile “crudele”), è anche e soprattutto azione concreta sulla pellicola (e quindi non solo nella pellicola). Sequenza cardine di tutto Nostra Signora dei Turchi, è proprio quella impressa sulla pellicola (quella poca Kodak Ektachrome con cui il film venne realizzato) che poi è stata volontariamente logorata, calpestata, graffiata in modo tale da affiancare al filmato (in una sorta di doppia impressione) i segni inflitti in un secondo momento e con una tecnica quasi pittorica. Operazione iper-cinematografica, in cui più che l’azione filmata ciò che veramente conta è il supporto, la sua qualità e il suo stato (davvero in questo caso il mezzo è il messaggio, adagio certo un po’ abusato e logoro ma perfettamente calzante in questa situazione).

 

carmelo beneÈ film nel senso letterale del termine –  pellicola –  che diventa per la prima e unica volta  “protagonista” di un film e non più semplice supporto (pellicola, piccola pelle su cui concentrare l’azione plastica del cinema, sollevarla strato su strato, come nella scena della scarnificazione in Salomè). E davvero dunque lo sfondamento del cinema è finalmente attuato, il disgusto per la settima arte è reso “letterale” (o forse davvero “cinematografico”), irrimediabile, e quindi anche non mediato: è una gestualità di tipo iconoclasta e rabbiosa (ma, ancora, non si può non nominare Artaud), questa di rovinare e sfondare il supporto, ma è al tempo stesso qualcosa d’altro e più importante, quasi il gesto di un (non) spazialista: trovare la quarta dimensione dietro la pellicola, cioè trovare il cinema oltre il non visibile. In questo senso il gesto di Bene è una estremizzazione dell’occhio tagliato di Buñuel: il non visibile non solo è poetico, ma anche, e soprattutto, concreto. E questo gesto è l’unico, e inevitabile, approccio realista (in quanto materiale, perché agente sul supporto, unico dato di realtà tangibile) al cinema operato da Bene.

 

Filmante vs. filmantesi

 

Quello di Bene non è un attacco alla forma cinematografica, è un affondo che colpisce molto più in profondità, è un attacco al supporto cinematografico, al mezzo in sé, quello che, tradizionalmente amorfo, aspetta di essere plasmato dalle mani dell’artista. Ebbene, il mezzo, il supporto, viene plasmato e straziato e lo strazio è la vera poetica del film – il vero comunicare artistico – attacco al supporto, sì, ma forse soprattutto attacco all’immagine stessa: “il cinema è sempre stato un plebiscito contro il buon gusto. carmelo_benenostra_signora_dei_turchi__carmelo_beneL’immagine  è volgare comunque. Il cinema non è niente, non ho mai visto un film in vita mia”. E non a caso, sempre a riguardo, Carmelo Bene affermerà che “l’arte delle immagini non è soltanto il cinema, anzi, quasi mai il cinema (che tra tutti i compromessi è l’ultimo arrivato). Nota: i più bei film li ho letti, o, se  li ho visti, mai al cinematografo”, come a dire e sottolineare l’impotenza del cinema nella funzione che più dovrebbe essergli congeniale: la rappresentazione dell’immagine (imago, che sta sì per immagine, ma anche per ombra, spettro, fantasma, visione, apparizione), cioè del compromesso della rappresentazione del reale (da sempre compromissorio, in quanto impossibile da sempre nell’arte).

 

Di nuovo, ci troviamo di fronte a una radicalizzazione di Buñuel, della sua negazione della rappresentabilità nel cinema (l’occhio tagliato). Meno impotente sarebbe la rappresentazione (pur sempre compromissoria, però) di immagini affidata alla parola poetica (più che allo scritto poetico): non a caso (più o meno ironicamente) il miglior film mai visto da Bene sarebbe La signorina Felicita, una poesia di Guido Gozzano stravolta in una riscrittura satirica, che è satira tutta sul cinema, scritta in un “idiolettaccio” che “corrisponde alla qualità sceneggiata delle immagini filmiche minacciate”. Così come un altro “film” non visto al cinematografo spesso menzionato da Bene è quell’Alexandros (macarmelobenesalomè anche il Solon) di Giovanni Pascoli, facente parte dei Poemi Conviviali, altro chiodo fisso “cinematografico” – suprema rappresentazione d’immagini in movimento – dei discorsi di Bene su/contro il cinema. Ma quello che giace davvero alla base di tutto questo è l’idea dell’inesistenza stessa del cinema, in quanto la settima arte non sarebbe nient’altro che il risultato dell’unione di una serie di espressioni che continuano a rimanere a sé stanti nonostante il tentativo d’unificazione del “cinema”:

 

Tributario della letteratura, del melodramma, delle arti visive e del teatro “di prosa”, il cinema è un coacervo (ormai multimediale) totemico di protesi e trapianti insensati, di traslochi maldestri: un cottolengo civile dell’impegno precotto e degli affetti affettati, degli effetti speciali dell’incongruo, degli sbadigli orrorifici e delle guerre stellate, della noia a mano armata e dello scoppiar del fottere simulato. È mai filmantesi, il cinema.  È filmato”.

 

Secondo Bene, dunque, il cinema non avrebbe mai raggiunto una funzione poetica autoriflessiva, che si avvolge cioè su se stessa e parla di sé parlando d’altro. È proprio da questa condizione di “filmato” (passivo) che Bene vuole sdoganare il cinema (cioè vuole sdoganare il cinema dal cinema), farlo diventare da eterogeneo miscuglio di media (letteratura + musica + arti visive + teatro…) qualche cosa di definibile in sé e per sé, attraverso sé (“filmantesi”). L’utilizzo concreto della pellicola sta proprio a indicare questa volontà: fare il cinema con il cinema (col film), non reinventarlo (ché non è mai esistito), ma inventarlo e basta, cosicché il cinema non sia “cinema” (nel senso tradizionale), né al tempo stesso “cinema differente” (cioè avanguardista o sperimentale che sia), bensì “differenza da cinema”.

 

Luca Verrelli

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